Umberto Tozzi: «Sono sempre lo stesso guerriero»
Ci sono due divani, piazzati nella hall di altrettante sale d’incisione, che affiorano spesso nei ricordi di Umberto Tozzi quando riavvolge il nastro della sua carriera. Il primo, bianco, è la fotografia della gavetta milanese negli anni Settanta: «Era a due passi dall’ingresso della Numero Uno, la casa discografica di Mogol e Battisti. Lì si sedevano i musicisti come me e Ivan Graziani in attesa di essere chiamati per incidere qualche apparizione nei dischi degli artisti già affermati. Io suonavo la chitarra e facevo i cori. A gestire i turni di registrazione era Claudio Fabi, il papà di Niccolò. Ore di attesa senza nessuna certezza di svoltare la giornata. A sera, poi, si andava al Ristorante 4cento in zona Ripamonti, dove i musicisti senza soldi come me si sedevano a un tavolo non apparecchiato e iniziavano a suonare la chitarra e a cantare. Man mano che procedeva la serata arrivava dalla cucina qualcosa da mangiare. Era un’epoca di povertà e miseria, ma ho ricordi stupendi di quegli anni. Volevo solo guadagnarmi da vivere facendo il musicista, non avevo nessuna intenzione di diventare un cantante» racconta poche ore prima di raggiungere i The Kolors al Forum di Milano per un featuring sulle note della sua Gloria.
«L’altro divano che ben ricordo è quello dello studio Plastic di Roma dove ho pianto perché Il grido, l’album che avevo inciso con il musicista e arrangiatore Greg Mathieson e una superband di turnisti americani, non era piaciuto alla casa discografica…». Quella di Greg Mathieson è una figura centrale nella storia di Tozzi: «Nel 1981 Greg stava lavorando al primo album di una vocalist newyorkese, Laura Branigan. Mancava un pezzo per chiudere il disco, così decise di proporgli alcuni miei brani. Alla fine scelsero Gloria. Da quel momento cambiò tutto: la canzone debutta al primo posto negli Stati Uniti, mi invitano a ritirare il disco d’oro per il milione di copie vendute, mi ritrovo a New York, allo Studio 54 dove a un certo punto il deejay mette Gloria e in sala c’è un’esplosione pazzesca di entusiasmo e coriandoli... Come se non bastasse, Gl
Ottanta milioni di album venduti e il suo tour definitivo (L’ultima notte rosa - The final tour) che sta per partire il 17 maggio da Malta. A seguire, tra le date più importanti, le Terme di Caracalla a Roma, il 20 giugno, e Piazza San Marco a Venezia, il 7 luglio. E poi, l’Europa, gli Stati Uniti (New York, Boston, Atlantic City, Chicago) e l’Australia. «Per questo gran finale ci sarà con me anche un’orchestra d’archi e fiati. Penso che la mia musica abbia una dimensione sinfonica da valorizzare. In scaletta ci saranno anche alcuni pezzi del nuovo disco di inediti che uscirà in autunno. Sono certo che in questo giro di concerti emozionerò tantissimo perché in ogni città sarà l’ultima volta». La celebrazione di cinque decenni di musica e successi che nel corso dell’intervista si intrecciano inevitabilmente con le memorie di un’avventura artistica iniziata in salita.
«Otto anni durissimi, mio padre voleva che tornassi a Torino la smettessi con la musica e iniziassi a fare un lavoro più sicuro. Io non volevo mollare e stringevo i denti. Dormivo a Milano per mille lire al giorno alla Pensione Speranza senza sapere mai chi mi sarei trovato a fianco la sera. Nella stanza c’erano due letti e una sottile parete divisoria, nient’altro. Le giornate trascorrevano nell’attesa che qualcuno mi dicesse “Ehi Umberto, c’è da incidere una parte di chitarra per...” o “dovresti fare un coro con...”. Ma quello era il mio sogno» spiega. Il primo tempo di una vita artistica che poi è diventata una collezione di hit internazionali «nate in pochissimo tempo e, a volte, pure per caso. Ma è così, le grandi canzoni non nascono in un mese, occorre che scocchi la scintilla. Più rapido di me e Giancarlo Bigazzi (il suo collaboratore storico, ndr) ho incontrato solo Mogol. Quando gli ho proposto di collaborare mi ha risposto “ok Umberto, ma sappi che io non lavoro più di un paio d’ore al giorno”. Per me era perfetto, anche perché io non sono uno che imbraccia la chitarra tutti i giorni. Aspetto sempre che sia lo strumento a “chiamarmi”. Pino Daniele, mio vicino di casa a Roma, aveva un atteggiamento opposto. Lui, complice anche un talento incredibile, aveva bisogno di suonare e registrare qualcosa tutti i giorni. Io no, sono sempre stato pigro»
A dir la verità non voleva nemmeno diventare un cantante, un frontman: «Ero cosciente di saper cantare ma non avevo alcuna velleità da protagonista, non avevo un bel rapporto con la mia voce: quando uscì Donna amante mia, il primo 45 giri (è da poco uscita una versione inedita in cui duetta con Giuliano Sangiorgi dei Negramaro, ndr) ero imbarazzatissimo». Dalla vetta delle classifiche alla Nazionale cantanti il passo è stato breve: «Abbiamo iniziato davanti a cinquecento persone che poi sono diventate decine di migliaia. In squadra c’eravamo io, Gianni Morandi, Eros Ramazzotti... Una bellissima esperienza, solo che in ritiro c’erano regole rigidissime come il menù atletico. Si immagini... Uno che fino alla sera prima aveva mangiato trippa, giusto per citare un piatto leggero, che per tre quattro giorni si ritrova a cena con un regime dietetico da sportivo professionista. A tavola, da bere, c’era solo acqua. E dopo cena, la camomilla prima del ritiro in camera alle 23. Un po’ troppo, così io e un gruppo di colleghi, in cerca di un po’ di vita, abbiamo iniziato a organizzare delle fughe di mezzanotte».