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Usa, manifestazioni pro Palestina nei college: tre possibili letture (e una piacerà ai complottisti)

In America migliaia di studenti nei migliori college, dal Massachusetts alla California, inscenano manifestazioni di protesta, chiedono la cessazione di affari delle università con i produttori di armi, il rifiuto di fondi per la ricerca da Israele e il disinvestimento da aziende che sostengono la guerra a Gaza. Proteste studentesche così massicce (anche in Italia: a Roma la Sapienza ha dovuto cancellare alcuni concerti di musica classica nell’Aula Magna del Rettorato temendo disordini e sit-in a favore della Palestina) non si vedevano dai tempi della presidenza di Richard Nixon e delle manifestazioni contro la guerra in Vietnam negli anni Sessanta.

Quel che accade nei campus influenza il dibattito politico a Washington, soprattutto dopo l’approvazione al Congresso di un pacchetto di aiuti da 26 miliardi di dollari per Israele che ha visto contrapposti i più stretti alleati del paese ebraico in entrambi i partiti, ai democratici di sinistra schierati con chi manifesta contro il governo Netanyahu, accusato di aver provocato a Gaza un genocidio da oltre 34.000 morti di cui due terzi donne e bambini.

La vicenda è complicata perché ha vari livelli di interpretazione. Almeno tre.

1. Gli studenti protestano a favore della Palestina, ma al diritto di manifestare grazie alla libertà di espressione del pensiero vanno affiancate le preoccupazioni di molti studenti ebrei secondo i quali alcuni degli slogan, dei discorsi e delle azioni dei manifestanti equivalgono ad atti di antisemitismo. Così le autorità accademiche di famose università come Columbia University, Harvard, Yale, Rutgers, NYU – per anni molto tolleranti e fedeli alle politiche woke – accusate dai conservatori di non far nulla per fermare il caos nei campus, ad un certo punto hanno deciso che tali comportamenti non sarebbero stati più tollerati. Dal giorno in cui la Columbia a New York ha chiamato la polizia per sgomberare i sit-in, il 18 aprile, le proteste si sono intensificate ovunque. Di qui la richiesta dell’intervento delle forze dell’ordine e gli arresti in massa in oltre venti università, con più di 400 studenti finiti in manette (108 solo alla Columbia). In molte scuole i cancelli sono chiusi e per il prossimo semestre le lezioni saranno solo virtuali.

2. Il secondo livello di interpretazione è politico. Le proteste anti-Israele sono un ostacolo elettorale per il presidente Biden, che tenta di conciliare il sostegno al più stretto alleato mediorientale di Washington, in particolare dopo l’attacco terroristico del 7 ottobre di Hamas, allo stesso tempo condannando Netanyahu (uomo di destra disprezzato da Biden) per l’eccessiva reazione militare che ha seminato distruzioni e morti infinite tra i civili a Gaza. Per non infuocare ancor più il dibattito, il presidente ha scelto la via di mezzo: “Condanno le proteste antisemite, ma condanno anche coloro che non capiscono cosa sta succedendo ai palestinesi” ha detto. La questione rimarrà calda fino alle elezioni di novembre, anche perché Biden cerca di non perdere il sostegno della comunità musulmana, influente in stati ‘contesi’ come il Michigan, che potrebbero essere cruciali per battere Trump.

3. Il terzo livello di interpretazione piacerà ai cospirazionisti. La richiesta degli studenti di separare gli affari delle università dalle aziende del settore armi che contribuiscono agli attacchi militari di Israele a Gaza affonda le sue radici nel movimento BDS (boicottaggio, disinvestimento e sanzioni). Si tratta di una campagna da anni in lotta contro le politiche vessatorie di Tel Aviv a Gaza e in Cisgiordania. Questo movimento ha acquisito nuova forza nelle università Usa quando la guerra ha superato la soglia dei sei mesi e le storie di orrore e sofferenza nella Striscia hanno moltiplicato in tutto il mondo gli appelli a un cessate il fuoco.

E qui c’è il retroscena finanziario: oltre a gruppi di attivisti come ‘Jewish Voice for Peace’ e ‘IfNotNow’, il movimento BDS, in particolare, è stato finanziato a più riprese dalla Open Society Foundations di George Soros (oggi gestita dal figlio Alex). L’ho documentato in dettaglio nel mio libro L’affaire Soros, in cui spiego come mai il miliardario di origine ungherese, ebreo fuggito al nazismo, è un acerrimo nemico di Israele e in particolare del premier Bibi Netanyahu. Soros ha speso centinaia di milioni di dollari impiegando la sua OSF per delegittimare e mettere in cattiva luce lo stato ebraico di Israele.

L’elenco dei gruppi avversi a Tel Aviv finanziati dalla Open Society Foundations di George e Alexander Soros è lungo, a cominciare dal New Israel Fund (Nif) impegnato in una serie di attività sul fronte BDS, a cui dal 2009 sono andati 837.500 dollari, fino all’associazione Education for Just Peace in the Middle East, che ha ricevuto 700.000 dollari dal 2018, più recentemente con una sovvenzione biennale nel 2022. Una “stop list” del governo israeliano vieta l’attività a venti organizzazioni sostenitrici del movimento BDS (definito “una campagna antisemita”) tra cui sei sono americane e, di queste, quattro risultano finanziate da Soros.

Nonostante le controversie, è chiaro però che la stragrande maggioranza dei manifestanti, sia americani che italiani, non è guidata da motivazioni finanziarie ma da una sincera preoccupazione per le atrocità subite dai civili palestinesi a Gaza. Gli studenti non sono sul libro paga di nessuno. Lottano contro il governo di destra di Bibi, non contro gli ebrei.

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