Infermieri sudamericani, a Varese hanno già iniziato la prova. L’azienda sanitaria: “Incoraggiante”. I medici: “Dopo 5 mesi nessuno è autonomo”
L’idea dell’assessore lombardo al Welfare, Guido Bertolaso, di risolvere la drammatica carenza di personale infermieristico andando a reclutare professionisti in Sud America, non è una novità in Lombardia. Lo scorso novembre, infatti, nell’Azienda socio sanitaria territoriale Sette Laghi di Varese sono arrivati 12 infermieri provenienti da Argentina e Paraguay. È il cosiddetto Progetto Magellano: giovani professionisti stranieri vengono inseriti nelle strutture sanitarie locali per cercare di rimpolpare il personale, dopo aver completato un percorso di integrazione di un mese. Trenta giorni molto fitti per i giovani infermieri sudamericani che, durante questo periodo, dovranno imparare la lingua, studiare le norme e le pratiche di un Sistema sanitario a loro sconosciuto e familiarizzare con le tecniche, gli strumenti, i materiali e i farmaci usati nelle strutture. Un compito arduo non solo sulla carta, tanto che a cinque mesi di distanza dal loro arrivo, ancora nessuno di questi 11 infermieri – una collega nel frattempo ha abbandonato il progetto – lavora autonomamente nei reparti.
Il loro affiancamento è diventato un’ulteriore mansione per quei professionisti, sottopagati e sottonumero, che ancora non hanno lasciato la sanità pubblica. O che ancora non sono andati a lavorare in Svizzera: a poche decine di chilometri di distanza da Varese, infatti, le strutture svizzere offrono uno stipendio tre volte superiore rispetto a quello percepito da un infermiere in Italia. E anche le condizioni di lavoro sono decisamente migliori: i professionisti non sono costretti a saltare i propri turni di riposo per garantire servizi e cure ai cittadini, o a dover svolgere mansioni al di fuori delle competenze per le quali hanno studiato.
Per l’Asst Sette Laghi di Varese, contattata da ilfattoquotidiano.it, il bilancio dei primi mesi di servizio degli 11 infermieri sudamericani è incoraggiante, tanto che è stato deciso di replicare la sperimentazione, con un secondo gruppo di infermieri: durante i colloqui di selezione, che si sono svolti online il 15 marzo scorso, sono risultati idonei sette infermieri, tre donne e quattro uomini, tutti provenienti dal Paraguay. “L’esperienza con il primo gruppo di professionisti sudamericani ha dato buoni risultati – dichiara il direttore generale dell’Azienda, Giuseppe Micale – Ad eccezione di un paio di situazioni un po’ critiche, gli infermieri hanno dimostrato non solo un livello di competenze sovrapponibili a quella dei colleghi italiani, ma anche grande spirito di adattamento e senso di responsabilità”. Nonostante questo, però, il direttore si dice consapevole che quella rappresentata dal Progetto Magellano non rappresenti una soluzione per il medio e lungo periodo. È un tampone, necessario nell’immediato per evitare di dover ricorrere alla riduzione dei servizi per i cittadini. Il compito di risolvere il problema sistemico della mancanza di infermieri, di cui soffre tutto il Paese, non spetta alla singola azienda socio sanitaria territoriale, bensì a livelli decisionali più alti.
L’obiettivo principale della Sette Laghi, dichiarano dall’Azienda, resta quello di assumere infermieri italiani: nel 2023 sono stati banditi tre concorsi a tempo indeterminato. In aggiunta a questi è sempre aperto a un avviso che, attraverso una procedura più rapida e semplificata, permette l’assunzione di infermieri a tempo determinato. Questo sforzo ha portato dei risultati, spiegano, ma non ha soddisfatto la necessità di personale infermieristico aziendale. L’iniziativa della Sette Laghi ha ispirato la missione sudamericana di Bertolaso, partito per l’Argentina alla ricerca di infermieri per il Sistema sanitario lombardo. Ma secondo gli organi di categoria, quella dell’ex capo della protezione civile, così come quella dell’Asst di Varese, non può essere la giusta risposta alla mancanza di professionisti. “Se non miglioriamo le condizioni di lavoro, non risolveremo mai il problema alla base – commenta a ilfattoquotidiano.it Aurelio Filippini, presidente dell’Ordine delle professioni infermieristiche (Opi) di Varese – Reclutare infermieri dall’estero non è una soluzione. Né a breve, né a medio, né a lungo termine”. Per Filippini non è possibile far fronte alla mancanza di oltre 9mila infermieri in Lombardia reclutando qualche centinaio di professionisti in Sud America. “Solo nella provincia di Varese ne mancano più di 400. Duecento nell’Asst Sette Laghi”, spiega.
Ma non è solo una questione di numeri. I professionisti che arrivano da altri paesi necessitano di un lungo periodo di formazione. In primo luogo linguistica, sia per comunicare con i pazienti, sia per affrontare conversazioni professionali con i colleghi utilizzando un corretto italiano tecnico-scientifico. “Abbiamo affiancato agli 11 infermieri sudamericani dei colleghi che conoscevano lo spagnolo, in modo che potessero fare da traduttori”, dichiara Filippini. Gli infermieri sono abituati ad affiancare i nuovi colleghi che entrano nei reparti, è la prassi. “Ma in questo caso l’aggravio è diverso, il processo è più lungo”, spiega. Passano molte settimane, alcuni mesi, prima che un infermiere straniero sia autonomo nel suo lavoro. “Forse due colleghi sudamericani inizieranno a coprire i turni senza affiancamento dal prossimo mese, per gli altri nove ci vorrà ancora un po’ di tempo”, commenta.
Una delle richieste principali dell’Opi, condivisa anche dal sindacato di categoria Nursing Up e dall’Enpapi (Ente Nazionale di Previdenza e Assistenza della Professione Infermieristica), è quella di modificare i requisiti con i quali vengono selezionati i colleghi stranieri, per far sì che debba essere attestata almeno la proprietà della lingua italiana. Durante la crisi pandemica, infatti, il decreto Cura Italia (convertito nella legge n. 27/2020) ha introdotto una procedura semplificata per l’assunzione di infermieri stranieri. Questa deroga della qualifica professionale sanitaria conseguita all’estero, pensata in un momento emergenziale, è stata poi prorogata fino al 31 dicembre 2025, per coprire le strutturali carenze di personale. Ad oggi, quindi, la legge consente il reclutamento di operatori sanitari in possesso di titoli non riconosciuti dallo Stato italiano, senza la verifica degli esami e dei tirocini svolti, nonché delle competenze linguistiche.
Un’altra paura dell’Ordine è che, dopo il lungo lavoro di formazione e di inserimento, i colleghi stranieri, al pari di quelli italiani, si facciano attrarre dalle sirene svizzere. D’altronde, la complessità della nostra realtà sanitaria italiana, gli stipendi bassi e la mole di lavoro non invogliano certo a rimanere. “Dopo aver fatto migliaia di chilometri per arrivare a Varese dall’Argentina, 50 chilometri in più dovrebbero fare la differenza?”, si chiede Filippini. “Già dopo un anno dal loro arrivo sanno bene qual è l’aria che si respira qui”, prosegue. Il problema di Varese è condiviso anche con altre province di confine, come Como e Sondrio. Territori che riforniscono l’estero di professionisti molto preparati. “L’Università degli studi dell’Insubria forma ottimi infermieri che in buona parte vanno in Svizzera – spiega Filippini -. Ora lo faremo anche con i lavoratori stranieri, dopo che si saranno integrati nel nostro sistema. Se questo accade è perché qui qualcosa non va”. Per migliorare la situazione, al di là di una revisione degli stipendi che però è di competenza nazionale, l’Opi chiede che la Lombardia introduca delle agevolazioni fiscali e dei bonus concreti, soprattutto per chi lavora nelle zone di confine, richieste che l’assessore al Welfare Bertolaso assicura di aver già inoltrato al Governo Meloni. “Se non possono aumentarci lo stipendio, facciano in modo che valga di più quello che abbiamo”, dichiara Filippini, che conclude: “Le soluzioni tampone non servono, gli interventi strutturali non possono più aspettare. Sennò sarà un circolo vizioso. La gente continuerà ad andarsene, peggiorando ulteriormente le condizioni di chi rimane”.
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