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Quelle case dimenticate della Mafia



Sono circa 10 mila le unità immobiliari, molte delle quali al Nord, sequestrate dallo Stato alle mafie. Ma a un gran numero di queste non si trova una nuova destinazione, e si finisce per dimenticarle (spesso ci vivono i vecchi proprietari). Una proposta cerca di dare un senso a tale patrimonio.

Le finestre sono rimaste spalancate e il giardino di cactus e fichi d’india dà ancora l’impressione di essere stato in un recente passato ben curato, mentre la piscina è a secco. L’imponente villa, su tre piani, con mansarda, si trova sulla SS117 bis, strada statale che collega Gela a Catania. Chi ci viveva fino a non molti mesi fa è stato costretto a lasciarla. Per la verità, Salvatore Murana, l’uomo che l’ha fatta costruire e che gli inquirenti siciliani indicano come un esponente della Stidda e che otto collaboratori di giustizia accusano di riciclare i soldi sporchi di una famiglia mafiosa, avrebbe anche violato i sigilli per riprendersela. Poi la Prefettura ha curato lo sgombero definitivo e il Comune di Gela ha pubblicato un bando per affidarla alla collettività. L’unica istanza giunta in municipio l’ha inviata una Onlus, Casa Rosetta, e presto quell’immobile sarebbe diventato un centro di recupero per tossicodipendenti, se all’improvviso, il 28 febbraio scorso, non fosse scoppiato un incendio.

È una delle tante storie che caratterizzano l’iter dei beni confiscati alle mafie, molti dei quali, nonostante le sentenze definitive, sono ancora occupati dai precedenti proprietari. A leggere i dati dell’Agenzia governativa che li amministra, li tiene in custodia e li assegna ai Comuni, ci sono circa 10 mila unità immobiliari delle quali lo Stato si è riappropriato. Raggruppando gli oltre quattromila appartamenti in condominio, le quasi mille abitazioni indipendenti, le 560 ville, i 13 palazzi di pregio artistico e storico e i 53 alberghi, i 160 immobili uso abitazione (ai quali si aggiungono i fabbricati in corso di costruzione), si può immaginare una piccola città fantasma. O un grosso paese.

In Veneto, dove c’è una particolare concentrazione di beni confiscati, per esempio, gli immobili espropriati alle mafie hanno raggiunto quota 460. E in ben 156 casi si tratta di appartamenti in condomini pronti all’uso. I dati, forniti dalla Fondazione Gianni Pellicani, che ha mappato uno per uno gli immobili, rendono, però, una fotografia non proprio incoraggiante: 227 sono ancora nella fase di gestione burocratica e quindi non sono stati assegnati ad alcun ente, mentre 265 sono stati destinati a comuni, amministratori locali o altre istituzioni ma solo uno su cinque è già utilizzato con finalità sociali. Si va dalla villa con piscina e campo da tennis a Campolongo Maggiore (VE) che apparteneva al capo della mafia del Brenta Felice Maniero, agli immobili del boss della mala cinese Keke Pan, sempre nel Veneziano, fino all’hotel - che si trovava nel Bellunese - di proprietà di Enrico Nicoletti, passato alla storia con il nomignolo «il Secco», che faceva da cassiere per la Banda della Magliana.

Ci sono poi alcuni significativi record: a un Comune di 657 anime, Roccella Valdemone, in provincia di Messina, l’Agenzia per i beni confiscati ha assegnato ben 285 immobili sottratti a Cosa nostra, ovvero uno ogni due abitanti. A guidare la classifica nazionale è la città di Palermo, con 1.558 beni confiscati, che stacca di molto la seconda in classifica, Reggio Calabria, con 374 beni. Dalla sinistra bussano a denari, pretendendo fondi da investire proprio in quegli immobili. La Spi Cgil, sigla del maggiore sindacato italiano che raggruppa i pensionati, per esempio, chiede di spostare fondi del Pnrr per ristrutturare e rendere confortevoli gli alloggi nei quali un tempo vivevano i boss. Ma la questione è più articolata. Le richieste di assegnazione latitano non perché i beni non siano presentabili o immediatamente riutilizzabili. Basta scorrere il sito web dell’Agenzia per i beni confiscati per rendersi subito conto che alle aste non partecipa nessuno. Gli ultimi casi: a Fiumefreddo Bruzio, in provincia di Cosenza, la gara per una unità immobiliare con area urbana di pertinenza è andata deserta; a Monteleone d’Orvieto, in provincia di Terni, nessuno ha risposto alla procedura di vendita di alcune villette a schiera con box auto; a Canicattini Bagni di Siracusa è accaduto lo stesso con un immobile di pregio tirato su negli anni Quaranta.

La parola che si ripete in modo costante proprio sotto agli avvisi delle aste pubbliche è «deserta». In alcuni casi, per aggirare l’ostacolo, viene cambiata la destinazione d’uso. A Mazara del Vallo, in provincia di Trapani, per esempio, un palazzotto confiscato alla famiglia di Totò Riina è diventato una caserma della Guardia di finanza, mentra a Enna l’Asl ha inserito in una unità immobiliare in cui si nascondeva un boss una Casa di comunità per l’assistenza socio assistenziale. Si tratta però di casi di riutilizzo molto rari. Il futuro dei beni confiscati, di solito, è l’oblio. E forse è per questo che un parlamentare di Fratelli d’Italia, Andrea Di Giuseppe, eletto nella circoscrizione estera Centro-Nord America, ha lanciato una proposta: «Mettere i beni confiscati a disposizione dei connazionali che vivono all’estero e che vorrebbero rientrare in Italia». Secondo Di Giuseppe in molti non vedrebbero l’ora di tornare, soprattutto dalle comunità del Centro e Sud America. L’idea del parlamentare è «di prendere un po’ di quei beni e darli in comodato per tre o quattro anni alle aziende che si impegnano ad assumere gli italiani all’estero che vogliono rientrare. Dopo quel periodo le aziende potrebbero avere una prelazione per l’acquisto degli alloggi e poi concederli in affitto ai lavoratori».

Di Giuseppe fa sapere di essere già al lavoro su un progetto pilota che sembra calzare a pennello alla situazione veneta. E spiega: «Sarebbe un vantaggio per tutti. Lo Stato risparmierebbe le spese per alloggi che non usa e il sistema produttivo risolverebbe i problemi legati alla carenza di personale specializzato». Si eviterebbero i paradossi di Ardea, paesone dell’area metropolitana di Roma. Qui il Comune ha deciso di restituire all’Agenzia per i beni confiscati un immobile che gli era stato affidato. L’idea era di farne delle case popolari o delle strutture per il sociale. Le strutture migliori, però, dopo i sopralluoghi sono risultate occupate abusivamente (probabilmente dai proprietari), per quelle in cattivo stato di conservazione, invece, sarebbe «consigliabile l’abbattimento».

In un secondo caso, sempre ad Ardea, è andata anche peggio. Un villino confiscato era stato ristrutturato a spese del Comune che voleva trasformarlo in un centro antiviolenza. Il Tribunale di Velletri, però, non aveva informato l’Agenzia governativa che nel frattempo la confisca era stata annullata e che l’immobile era finito all’asta. Gli aggiudicatari si sono così ritrovati il bene completamente ristrutturato con fondi pubblici. Con buona pace del Comune.

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