L’importanza di chiamarla Giorgia: familiarità e consenso “vs” tecnostrutture. Ed Elly? Un tecnicismo…
L’importanza di chiamarla “Giorgia”. E, da parte sua, di farsi riconoscere elettoralmente proprio così. Il nome della premier è il fatto politico del momento. Non è la prima volta che accade, certo: da quel «io sono Giorgia…», declamato in piazza San Giovanni come paradigma di donna e leader irriducibile ai falsi miti di certa contemporaneità, un’intera proposta politica si è fatta simbolo popular, intellegibile a tutti, grazie anche alla sua firma. Eppure da domenica, con il suo intervento alla Conferenza programmatica di Pescara in cui ha chiesto di tracciare il suo nome come gesto politico per le prossime Europee, non si parla d’altro. Il motivo è semplice: nessuno al momento è in grado di proporre o contrapporre minimamente alcunché. Nella forma ma anche – e soprattutto – nella sostanza.
La contraerea di sinistra, nonostante l’annuncio della candidatura della premier come capolista fosse il segreto di Pulcinella, è rimasta spiazzata. Da quelle parti, infatti, si continua a sottovalutare la forza di una leadership che dimostra di avere fantasia, oltre che consenso, ed energia da vendere. La reazione? Come abbiamo raccontato sul Secolo d’Italia, è stata opposta e contraria. All’insegna della goffaggine, ad esempio: abbiamo appreso che si potrà votare anche “con” Elly ma nel Pd si sono affrettati a camuffare l’inseguimento sulla personalizzazione con le supercazzole (la chiamano «narrazione diversa») per non mostrarsi…meloniani. Reazioni, poi, all’insegna della prevedibilità. E via con il solito commento “cupo” di Repubblica, con l’ex direttore Ezio Mauro che valuta la scelta del nome come un gesto di «comunione pagana» per un «soggetto sovversivo degli equilibri europei».
Su una cosa, però, siamo d’accordo con Mauro: la «prova di familiarità col popolo» dimostrata da Giorgia Meloni con questa scelta. Non un’operazione di marketing, dunque, né la richiesta peronista di un plebiscito ma un segnale politico di corrispondenza. Insomma, dietro la richiesta di scrivere solo “Giorgia” sulla scheda – unita alla rivendicazione delle sue origini sociali e alla promessa di restare politicamente fedele a queste – Meloni ha lanciato un programma preciso: ricomporre quella frattura popolo/élite che ha rappresentato il grande conflitto che ha contrapposto la democrazia sostanziale e le tecnostrutture esecutive in Ue. E tanto più Macron & co si affannano a sperare in un’indicazione tecnica, per la prossima Commissione, che scavalchi la volontà popolare, quanto più il mandato politico “rafforzato” da un’indicazione del genere ne rappresenterà un contraltare da cui sarà difficile, se non impossibile, non tenerne conto.
Ecco perché voler mettere la faccia e il nome in questa campagna per le Europee per Meloni è un “manifesto“: perché sintesi di quel modello italiano che ha saputo tenere insieme la grande questione sociale con i doveri sanciti dalle tante tensioni internazionali esplose in questi ultimi due anni. Referendum su se stessa allora? Elezioni di mid-term? Decisamente di più. Un mattone solido per costituire, insieme ai patrioti delle tante strade d’Europa, l’obiettivo storico della destra: riportare il Vecchio Continente a essere una comunità nazionale. Un soggetto politico, un attore geopolitico: necessità vitali in un mondo multipolare. E con ciò anche un modello universale di welfare, diritti ed ecologia coniugati – questa è la ricetta unica di un’intera civiltà – con lo sviluppo e con l’uomo.
Ah, quasi dimenticavamo. E l’importanza di chiamarla Elly? Lo dicono, ancora su Repubblica, i suoi stessi narratori: un «tecnicismo» per non smarrire qualche voto nelle schede. Le correnti e i cacicchi che si contendono gli scranni potrebbero metterle in conto pure il nome complicato. Il progetto del Pd, grossomodo, sta tutto qui.
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