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L’Orchestra Haydn diretta da Mariotti:  «Una formazione che guarda avanti»

Tra i direttori d’orchestra italiani, Michele Mariotti è ormai da tempo una delle bacchette più apprezzate e popolari. È il direttore principale del Teatro dell'Opera di Roma, ma, parallelamente, porta avanti un’intensa attività con altre istituzioni. Domenica, alle 18, sarà al Giovanni da Udine a capo dell’Orchestra Haydn di Trento e Bolzano, alle prese con Beethoven e Webern.


Maestro Mariotti, come ha scelto le pagine che eseguirà a Udine?
«È dal 2016 che ho un rapporto continuativo con la Haydn: ogni anno ho un doppio appuntamento con l’orchestra. La volontà è di proporre sempre programmi diversi, creando percorsi. Questo cammino porta a quanto faremo in giugno: la Quinta di Mahler, autore del quale abbiamo interpretato finora solo dei Lieder. Anche l’Eroica, che proporremo in questo ciclo di eventi, per me rappresenta un debutto. Il legame tra le due Sinfonie è dato dalla presenza della morte. Attorno all’Eroica si è costruito il resto».


Infatti, ci sono la Leonora n. 3, sempre di Beethoven, e il Langsamer Satz di Webern.

«Nella Leonora n. 3 vita e morte sono indissolubili: si toccano i momenti più bassi di ingiustizia fino alla resurrezione conclusiva, alla libertà ritrovata che poi è il paradigma di quanto succede nell’Eroica. Il Langsamer Satz è invece il lavoro di un padre dell’Espressionismo, prima che lo diventi: è un brano giovanile, tonale, anche se di una tonalità un po’ straussiana, mahleriana. Parla di struggimenti d’amore».


Qual è la caratteristica principale della Haydn?
«Un rigore mitteleuropeo, una cultura del lavoro unita a elasticità, apertura, disponibilità. Con i musicisti c’è quindi un ambiente ideale per sperimentare, per provare, per cercare insieme nuove idee, nuovi modi di eseguire anche le pagine tante volte affrontate. Con loro ho sempre trovato una totale flessibilità: il nostro rapporto si è rivelato immediatamente splendido. Avevo la sensazione di non dover spiegare troppe cose: le capivano al volo. E ora che ci conosciamo così tanto, ho bisogno di parlare ancora meno. Con la Haydn ormai mi sento a casa, siamo una famiglia. Ha una capacità incredibile di codificare nuovi stili, di non rimanere fossilizzata in un unico modo di suonare. È un’orchestra moderna nel pensiero».


Lei ha ereditato una delle tre bacchette di Claudio Abbado.
«La tengo sulla mia scrivania, con orgoglio, ma semplicemente, come semplice era sempre rimasto Claudio. Me l’ha donata suo figlio Daniele, nel 2016 quando abbiamo aperto la stagione del Comunale di Bologna con Attila, di cui era il regista. Le altre sono andate a Daniele Gatti e a Roberto Abbado».


Si sente un direttore prevalentemente operistico?
«Nasco con l’opera, ma sono sette-otto anni che parallelamente ho una carriera sinfonica. Però non amo le etichette. Penso che sia indispensabile praticare entrambi i repertori, per un discorso di completezza, di cultura: l’uno aiuta l’altro».


Com’è essere musicisti in Italia?
«È bello, perché possiamo annusare la nostra storia, ma non è semplice: siamo un Paese problematico, soprattutto per i giovani e, dopo il Covid, la situazione si è aggravata. Eppure, con tutti i problemi siamo una nazione, forse l’unica, che non ha mai smesso di produrre cultura». —
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