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Gli italiani e il linguaggio delle mani



Nel nostro Paese gesticoliamo a ritmo forsennato, rivela un nuovo studio. Ecco cosa c’è alla base della più nazionale forma comunicativa.

Che gli italiani, quando parlano, gesticolino parecchio, si sa. Ora uno studio dell’Università di Lund, in Svezia, aggiunge i dettagli: agitiamo le mani, parlando, più di 40 volte al minuto, 22 gesti ogni 100 parole. Il doppio di uno svedese medio, che di ne fa 11 ogni 100 parole. È come se noi del Belpaese commentassimo continuamente il nostro racconto per fargli acquisire incisività e un pizzico di «teatro». Per spiegare il risultato dello studio, i ricercatori svedesi hanno puntato l’attenzione su personaggi che brillano nell’immaginario dello spettacolo tricolore, come l’attrice Sophia Loren, Don Vito Corleone del Padrino o il duo comico Totò e Peppino, che della gestualità hanno fatto un cavallo di battaglia. Gli stranieri rimangono sempre un po’ perplessi, forse pure affascinati, da questa abilità tutta nostrana di coordinare, mentre parliamo, «lingua e mani con invidiabile eleganza». Lo registrò il quotidiano New York Times, anni or sono, corredando l’articolo con una serie di disegni che riproducevano i classici gesti «dell’italiano medio» con accanto il loro significato. Dall’atto di girare il dito contro una guancia, che come sappiamo vuol dire «Buono!», ma solo riferito al cibo, all’alzare i palmi lateralmente al corpo a significare «E che ci posso fare?»; dal battere l’indice sulla tempia, «questo è tutto matto!», al muovere in circolo la mano aperta con le dita verso il basso, universalmente interpretato come «è tutto un magna-magna!».

Ma perché lo facciamo? Perché gli svedesi si capiscono benissimo senza gesti mentre noi italiani non riusciamo a farne a meno? Per il direttore della rivista americana Gesture, Adam Kendon, si è reso necessario vivendo in un luogo affollato, chiassoso, per farsi capire e attirare l’attenzione anche a distanza. Secondo alcuni storici era una forma alternativa di comunicazione durante l’occupazione di Spagna, Austria e Francia, a partire dal XIV secolo: usando solo i gesti, era più difficile far capire agli invasori il contenuto delle loro conversazioni. Per Giambattista Vico, filosofo napoletano vissuto a cavallo tra il 1600 e il 1700, erano stati la prima forma di linguaggio umano.

«In realtà è l’incertezza nell’usare la parola in modo corretto che spinge noi italiani a gesticolare» sostiene Francesco Sabatini, già presidente dell’Accademia della Crusca, linguista, studioso della lingua italiana e dei dialetti. «Ci sono stati alcuni motivi che hanno portato la nostra lingua a essere posseduta dagli italiani in ritardo rispetto ad altri Paesi. Se ne sono serviti come lingua di cultura e comunicazione più tardi di Francia, Spagna, Inghilterra. Ancora oggi abbiamo difficoltà evidenti con la nostra lingua. Questo ci ha fatto sviluppare una comunicazione alternativa». Tra le cause del ritardo, il lento raggiungimento di un’organizzazione politica funzionante, con l’istituzione della scuola obbligatoria, la formazione dei docenti su basi più scientifiche, avvenuta solo dopo il Risorgimento, dopo l’Unità d’Italia. Anche la particolarità del nostro territorio, disomogeneo da Nord a Sud, decisamente diversificato per la turbolenta storia della Penisola, ha contribuito all’utilizzo di dialetti locali e gesti piuttosto che alla diffusione di un italiano corretto giunto molto più tardi soprattutto grazie alla televisione nazionale e alla facilità dei trasporti.

«Gli altri popoli si sono organizzati prima di noi, sviluppando giustamente l’uso di una lingua comune, colta, parlata da tutta la comunità. Si capivano e si capiscono, non hanno bisogno di gesticolare. Noi invece siamo stati incerti a lungo, il gesto ha preso il posto di quelle carenze. Continuiamo tutt’ora a gesticolare perché insicuri nell’uso della lingua». Anche se l’Italia viene considerata «culla della cultura» per la storia, per le nostre radici fondate sulla civiltà romana, per l’arte, ciò non ci rende automaticamente padroni della lingua nazionale, dai villaggi delle Alpi a quelli delle isole. «I dialetti sono certamente una ricchezza perché contengono informazioni preziose sulla storia del popolo stanziato su quella porzione d’Italia. Però abbiamo anche bisogno del possesso sicuro di una lingua unitaria che si ricolleghi ad altre lingue di cultura, come lo è il francese» conclude Sabatini. Punta invece l’attenzione sulla «natura» intrinseca degli italiani Valeria Della Valle, linguista, accademica corrispondente della Crusca. A suo giudizio la differenza di gestualità tra italiani e stranieri deriva da un’antica tradizione comportamentale. «Fermo restando che il gesto non deve sostituire la parola, perché se questa manca non va certamente bene, ritengo che il gesto fatto dall’italiano “accompagni” un termine che c’è già per renderne la comprensione più efficace e immediata».

Il muovere le mani, ma anche l’inarcare il sopracciglio, l’espressione del volto, l’atteggiamento del corpo. Il voler convincere l’interlocutore con ogni mezzo. «Non sono solo gli italiani a gesticolare: altre popolazioni hanno una gestualità vivace, ma diversa dalla nostra. Gli americani, per esempio, che sono il frutto di una composizione etnica molto varia, hanno una mimica particolare. Basta guardare i loro film. Pur abbassando l’audio, si capisce che sono statunitensi. Anche gli orientali hanno una loro mimica, che può consistere in una totale assenza di gestualità. Ma è qualcosa che li contraddistingue, basato sulle loro tradizioni». È innegabile che il successo di grandi attori di casa nostra sia legato alla bravura così come alla capacità di accompagnare la potenza di un linguaggio molto ricco con gesti delle mani, espressioni del viso e l’assunzione di varie posture. «Vorrei citare Vittorio Gassman, Paolo Villaggio, Ugo Tognazzi, Massimo Troisi: ognuno si poteva riconoscere dalla voce ma anche dalla mimica. Il loro partecipare con tutto il corpo al discorso che stavano facendo era un valore aggiunto perché affascinava, coinvolgeva gli spettatori. Per restare ai giorni nostri, anche gli avvocati, durante un’orazione o un’arringa, “parlano” utilizzando anche il corpo. A loro non mancano certo le parole, conoscono bene la lingua italiana, ma ritengono che un “calcare la mano” con la gestualità possa fare più presa sulla platea».

Che il gesto, in Italia, abbia sempre avuto un grande peso nella comunicazione lo rivela il celebre libro di uno dei più famosi grafici, designer e artisti italiani, Bruno Munari, intitolato Supplemento al dizionario italiano (Corraini, 118 pagine, 13 euro). Sulla copertina, quello che è forse il gesto più famoso nel mondo, universalmente riconosciuto. Quello in cui le dita della mano, rivolte verso l’alto, si uniscono mentre il polso dondola avanti e indietro (a significare «Embè, che c’è?» e ogni altra frase interrogativa). Se questo saggio, del 1999, non è mai passato di moda e continua a essere pubblicato in varie lingue, vuol dire che tanti sono d’accordo nel ritenere che il segno arrivi con forza all’interlocutore insieme alla parola. Anzi, talvolta prima.

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