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Un anno dopo l'alluvione ho scoperto la paura dell'acqua e la forza dell'amore

Di Deborah Dirani Benelli - da Ghibullo (Ravenna)

Cosa rimane un anno dopo, un anno dopo il giorno in cui sei stata costretta a scappare da casa tua, un anno dopo che l’hai vista così piena di acqua da pensare che tu non ci saresti mai più rientrare, perché solo i pesci potevano vivere in un metro e 80 centimetri di acqua stagnante?

Rimane la tua casa, quella dove non puoi fare a meno di abitare, anche se non la riconosci più del tutto, anche se, nonostante le cure che da un anno le dedichi, nonostante i mobili nuovi, le pareti riintonacate e imbiancate, continua a ricordarti che ha una ferita aperta, che sanguina ancora e non guarisce. È una ferita che vedi ogni volta che punti gli occhi in basso, appena sopra i battiscopa, e ha la forma del salnitro che spacca l’intonaco e scortica i muri. Li scortica letteralmente, non in senso lato: il salnitro su muri assomiglia alle ginocchia sbucciate, solo che quelle guariscono in fretta, il salnitro no. E allora lo guardi e ti ricordi anche quello che vorresti dimenticare: “Dobbiamo scappare subito, sta arrivando l’acqua”.

Siamo scappati, mio marito ed io, con cani e gatta caricati di fretta in macchina assieme a un paio di cambi di biancheria buttati in valigia senza un minimo di cognizione di causa. Perché il tempo per ragionare su cosa sia meglio portare, due paia di jeans o un jeans e una gonna, non ce l’hai quando scappi perché l’acqua sta iniziando a salirti dal pavimento. Non hai tempo per fare altro che correre via e abbandonare al suo destino il risultato di 20 anni di lavoro, di un mutuo e di un bel po’ di sacrifici. Scappi e cerchi di non piangere troppo, di restare positiva, di pensare che magari entreranno solo pochi centimetri d’acqua e basteranno due stracci e qualche secchio. E poi, invece, rientri, o meglio, ci provi perché di rientrare, a meno che tu non abbia le branchie non se ne parla: 180 centimetri d’acqua sono buoni per una piscina, non per una casa. Di sicuro non per la mia, di casa, visto che non so neanche nuotare.

A distanza di un anno, ancora oggi, quando sento che piove, quando sento quel “tic tic” contro l’abbaino della mansarda che fino al 16 maggio 2023 mi cullava e mi faceva addormentare, sbarro gli occhi e penso a tutto quello che dovrei portare velocemente al piano di sopra prima di scappare di nuovo. Perché, e sinceramente spero che nessuno debba mai scoprire quello che ho scoperto io, puoi anche ricomprarti tutto nuovo, puoi anche passare intonaco e vernice, puoi anche tenere il deumidificatore a schiodo… Puoi fare tutto quello che ti pare, ma avrai sempre paura della pioggia. Avrai paura di non poter proteggere quello che hai costruito, quello che ti sei sudato, quello che avevi sognato fosse il tuo posto nel mondo.

Avrai scoperto però anche un’altra cosa: l’importanza dell’essenziale che, aveva ragione il Piccolo Principe, è invisibile agli occhi. E il mio di essenziale è stato l’amore che mi ha avvolta e mi ha protetta e mi ha restituito forza e fiducia, mi ha fatta calzare stivali di gomma di rara bruttezza e zampettare nell’acqua scura. Il mio essenziale è stato mio marito che il giorno in cui abbiamo rimesso piede in casa e non potevamo scendere nel mio studio dove custodivo il mio vecchio bouquet di nozze, davanti ai miei occhi lucidi e alla mia domanda: “Leo, puoi vedere se si è salvato?”, si è tolto la maglietta ed è andato giù per riemergere dopo un momento tenendo tra le mani il mio bouquet e riconsegnandomelo esattamente come aveva fatto il giorno del nostro matrimonio. E io, mentre me lo dava, ho pensato che il principe azzurro esiste. L’ho sposato io, nella buona e nella cattiva sorte.

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