Stanza dell’affettività per detenuti e familiari: «Iniziamo da Padova»
Figli traumatizzati, relazioni calpestate, famiglie distrutte, diritti negati. La sentenza della Corte Costituzionale numero 10 dello scorso gennaio si oppone a questa desertificazione affettiva che subiscono i detenuti e le loro famiglie, rendendo possibili i colloqui intimi per i detenuti, senza controllo visivo. La scelta della Corte Costituzionale è destinata a rivoluzionare la vita detentiva e il carcere padovano, il Due Palazzi, si candida a essere un istituto di pena pilota in una eventuale sperimentazione di questa apertura ai sentimenti.
Ieri l’argomento è stato affrontato nel convegno “Io non so parlar d’amore” tenutosi in carcere e organizzato da Ristretti Orizzonti. Il direttore della Casa di reclusione, Claudio Mazzeo, conferma: «Abbiamo gli spazi e molti detenuti che avrebbero diritto alla stanza dell’affettività. La sentenza spiega chiaramente che non è necessario aspettare il legislatore, dunque siamo in attesa delle linee guida che usciranno dal tavolo tecnico aperto dal Governo per poter agire concretamente». Il grande ostacolo dunque è il “come”.
La sentenza riserva il diritto all’affettività a chi ha relazioni stabili e continuative: persone sposate, conviventi, e, naturalmente, i figli. I detenuti non sono molto fiduciosi: non credono si realizzerà mai. Le testimonianze raccontate durante la giornata di studi fanno ancora più male: figli che hanno visto spezzarsi il rapporto con il genitore, partner la cui vita sentimentale è stata congelata a forza. Zaccaria è un giovane adolescente. Ha frequentato il carcere fino ai 7 anni per far visita al padre. Non ha mai parlato di quelle visite. Finché, con la scuola (grazie al progetto Scuole in carcere) è tornato proprio al Due Palazzi. «Ho rivissuto all’improvviso la mia esperienza di bambino» racconta, «ho riconosciuto i luoghi e ricordato come un pugno nello stomaco quella stanzetta blu con i giocattoli che voleva sembrare allegra ed era solo triste, condivisa con altre famiglie, privata di tenerezza o fiducia. Allora alle persone dico: se non volete accettare una vita sessuale per i detenuti, pensate almeno a noi, figli incolpevoli che desiderano solo vivere la propria famiglia». Così Enrico, 22 anni, di Mortise, oggi detenuto e, prima, figlio di detenuto: «Chissà, magari se mio padre avesse potuto preservare la storia con mia mamma, io oggi non sarei qui».
Sono storie dolorose, scampoli di vita commoventi: «La mia bambina più grande, Carlotta, ha iniziato ad avere crisi epilettiche dopo il mio arresto» racconta Marino, un altro detenuto: «Erano provocate dall’angoscia da separazione perché io non ero più a casa: aveva appena 7 anni. Quando poi ha iniziato a venire a trovarmi, prima di avere una crisi si nascondeva nell’armadio: voleva condividere con me la prigione, a modo suo. L’altra figlia, Laura, che pensavo non avesse subito traumi, alla morte del suo fidanzato paragonò quel lutto al mio arresto: nella sua mente di ragazza la mia detenzione era un lutto. I nostri figli non sono vittime secondarie, come vengono definiti, sono vittime primarie che pagano colpe che non hanno commesso».
A sollevare la questione costituzionale, dalla quale è poi arrivata la sentenza, è stato Fabio Gianfilippi, magistrato di sorveglianza a Terni: «Ogni carezza scambiata nella stanza degli affetti cancellerebbe i graffi che un detenuto si porta addosso» commenta, «è una legittima aspettativa perché è un diritto della persona, che la sentenza ha messo in evidenza. Sono 31 i Paesi che hanno trovato delle soluzioni, arrivare dopo significa poter prendere esempio, ma non ci sono più scuse per negare questo diritto».