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L’editoriale: che cosa significa amare Trieste

L’editoriale: che cosa significa amare Trieste

Il sindaco non ha gradito alcuni articoli del giornale, ma è il nostro lavoro raccontare la realtà: cogliere anche le imperfezioni della città per difenderla e farla crescere

TRIESTE Che cosa significa amare veramente una città? Significa rapportarsi a lei come una creatura perfetta e inattaccabile, insediarla su un podio ideale e non ammettere che possa soffrire? Significa non vedere i difetti che mostra, o i pericoli che corre? Oppure amare una città significa coglierne le risorse ma anche le debolezze, con onestà, esaltare le une e concentrarsi sulle altre; significa insomma vederla anche come imperfetta, per difenderla e farla crescere.

Come una persona che si ama, come una madre o dei figli, come l’amicizia più importante o l’anima gemella.

È una domanda importante, che chiamerebbe in causa l’antropologia culturale e la sociologia; ma che, inesorabilmente, interpella la politica e pure il giornalismo. Ed è per questo che la poniamo a chiunque legga queste righe.

Roberto Dipiazza, sindaco di Trieste, non ha gradito alcuni articoli del Piccolo. E questo ci sta. Che cosa dicevano questi articoli? Diciamo – limitandoci a quelli usciti ieri – che il Piccolo ha messo insieme, analizzato e raccontato i più recenti fatti di cronaca nera avvenuti in città, cogliendo una tendenza criminale non tragica, si badi bene, e non irreversibile; ma evidente. E oggettiva. Risse, scontri tra bande, botte, coltelli, minacce serissime alle varie incolumità: tutto documentato, riscontrato nei verbali delle forze dell’ordine e soprattutto osservato dai cittadini, spettatori e al tempo stesso vittime di questo nuovo rischio collettivo.

Dieci episodi, abbiamo selezionato e riepilogato, tracciandone una mappa perché ci pare rilevante che la geografia di questa insicurezza sia trasversale e registri intersezioni nette con le periferie così come con il centro, con le aree degradate così come con quelle turistiche.

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Sul giornale di ieri, una dopo l’altra, tre pagine ci parlavano di questa Trieste che non è cartolina ma vita vissuta: la mappa e il racconto, appunto, poi il punto sulle centinaia di minori stranieri non accompagnati gestiti nelle strutture, che ci pare una questione sociale, nella quale l’approccio all’accoglienza e all’integrazione deve sintonizzarsi con l’efficienza dei servizi e con il rispetto delle regole; con la costruzione di contenuti di comunità e non solo di parcheggi per esseri umani.

Nella terza pagina abbiamo raccontato il sopralluogo della commissione comunale in via Flavio Gioia, all’ex mercato degli ambulanti, dove una parte di città vede possibile la sistemazione dei migranti, oggi acquartierati in condizioni inaccettabili al Silos, mentre il primo cittadino dice no.

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Nel Piccolo, come ogni giorno, c’era anche molto altro: e questo “altro” traduce sempre, quotidianamente, la bellezza straordinaria di Trieste, la sua storia e la sua cultura, la sua meraviglia e le sue prospettive future. Ma Dipiazza è un lettore selettivo e ha concluso, secondo noi scompostamente, che il Piccolo vuole male a questa città. Ora si badi bene, il sindaco sarà pure un amministratore longevo (23 anni di guida politica) ma il Piccolo a Trieste vuole bene dal 1881 e in questo campo è cintura nera, è il battito cardiaco della città, la ama sul serio. Non c’è un copyright dell’amore per Trieste: è di tutti, è talmente grande e importante che accoglie anche l’amore dei non triestini.

In un post social e in una serie di veementi messaggi privati, Dipiazza è arrivato persino ad augurarci “il male”, che è una roba un po’ da fattucchieri, ma insomma è una roba brutta, non si fa, suvvia. Sotto quel post sono piovuti diversi commenti. Di solito le pagine dei sindaci sono piene di consensi e di spalleggiamenti; in questo caso invece si leggono molti dissensi, onesti.

I triestini spiegano al loro primo cittadino che la situazione descritta dal Piccolo è semplicemente vera, che la postura dello struzzo che nasconde la testa sotto la sabbia non è esattamente la più efficace in questi casi, che la delinquenza non è ancora al punto di non ritorno ma bisogna correre ai ripari e, soprattutto, non negarla. La migliore risposta è stata questa, collettiva, dalla stragrande maggioranza di chi segue abitualmente l’attività del sindaco.

Noi abbiamo fatto semplicemente il nostro lavoro. Amare una città per noi non significa guardarla come uno stilnovista ammira una donna angelicata nel Tardo Duecento; significa invece proteggerla e chiedere aiuto, quando la feriscono.

Quando si deve affrontare, un problema? Per tempo, oppure troppo tardi? Non è meglio chiedersi che cosa generi certe dinamiche, ottenere più personale e attivare politiche sensibili, invece che limitarsi a dire che va tutto magnificamente?

Trieste non è Sin City e ha tutti gli strumenti per perfezionare le proprie imperfezioni; segnalare i problemi non significa crearli ma contribuire a risolverli. Vorremmo intervistare il sindaco su tutto questo; perché questo è il nostro lavoro e perché ci pare giusto confrontarci con lui, sui nostri modi diversi di amare una città.

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