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Riforma costituzionale, attenzione alla ‘mistica della governabilità’

di Carmelo Sant’Angelo

La storia delle riforme costituzionali in Italia si connota per una serie di riforme puntuali, compiutamente realizzate, e per una lunga teoria di riforme più o meno organiche, quasi sempre solo tentate.

Nella prima fase della storia repubblicana, si assiste ad una lotta per la Costituzione: l’intento delle forze politiche era, cioè, quello di dare concreta attuazione al progetto costituzionale, integrandone il testo.
Già alla fine degli anni 70 (quindi, molto prima della riforma del titolo V – l. cost. 3/2001) si apre una nuova stagione, nella quale fa ingresso una esplicita lotta sulla Costituzione. Si afferma, cioè, la volontà delle forze politiche di procedere a riforme organiche e complesse, in discontinuità con il dettato costituzionale del 1948. Non a caso i più recenti progetti di revisione fanno, apertis verbis, riferimento alla necessità di riforme “istituzionali”. La Costituzione, concepita come estranea alla lotta politica (essendo la Carta comune che regola i rapporti tra i soggetti istituzionali), diviene interna alla lotta politica.

Nella seconda Repubblica l’asticella si sposta più in alto: le riforme istituzionali vengono sottratte al Parlamento e divengono parte dei programmi politici dei – sedicenti – opposti schieramenti. Quasi ogni Esecutivo vanta un ministro per le riforme, il cui unico scopo è la risoluzione del “problema della governabilità”.

Con felice intuizione, il costituzionalista Marco Betzu ha definito questa impellente esigenza con la locuzione “mistica della governabilità”, che si declina come un’adesione etica e incondizionata a un preciso obiettivo: ottenere la governabilità attraverso una grande riforma istituzionale. La “mistica della governabilità” permea tutto il terreno politico, ispirando anche l’adozione di leggi elettorali che alterano profondamente il principio della rappresentatività. Corposi premi di maggioranza drogano gli equilibri e i rapporti di forza tra le forze politiche, consentendo la tirannia del governo sul Parlamento. Anche la riforma in itinere non fa eccezione, venendo definita come “necessaria”, anzi è “la madre di tutte le riforme”.

Ma siamo certi dell’asserita debolezza degli Esecutivi? E in caso affermativo, questa sarebbe ascrivibile al vigente impianto costituzionale? Per tenermi lontano dalle odierne beghe politiche, prendo a riferimento i dati della XVII legislatura. Nel lasso di tempo 2013-2018, i tre Esecutivi che si sono susseguiti hanno varato 100 decreti legge (circa due al mese) e 266 decreti legislativi (più di uno a settimana). Hanno fatto, inoltre, ricorso 107 volte alla questione di fiducia, per cui il 30,23% delle 354 leggi entrate in vigore hanno richiesto almeno un voto di fiducia.

Questo ruolo propulsivo del Governo sconfina nell’arroganza quando l’Esecutivo si arroga il diritto di porre la fiducia su un maxiemendamento governativo che, nel corso del procedimento di conversione, modifica ampiamente il testo originario di un decreto legge, annullando la potestà emendativa delle Camere, ma vanificando anche il controllo del Presidente della Repubblica esercitato in sede di emanazione su un atto avente un contenuto diverso. Per non parlare delle contromisure governative all’ostruzionismo parlamentare: il canguro, lo scavalco, la ghigliottina, la tagliola, lo spacchettamento… un campionario da far impallidire anche Edward mani di forbice. Tutto ciò è avvenuto a Costituzione invariata.

Al contempo, sempre nella XVII legislatura, i passaggi di gruppo sono stati 566 e hanno coinvolto 347 parlamentari (il 36,53% degli eletti), di cui 207 deputati (32,86%) e 140 senatori (43,57%). Per evitare i ribaltoni si intende oggi modificare la Costituzione, cucendo la legislatura addosso a due eventuali premier espressione della stessa maggioranza, cioè lo stesso meccanismo già presente nella bozza di Lorenzago del 2003. Ma se, invece, i partiti rinunciassero ad adescare gli eletti in altre formazioni politiche non sarebbe già un bel passo in avanti?

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