«Mio fratello poteva esser salvato»
Caluso
È morto per arresto cardiaco, perché aveva in corso un infarto che non è stato riconosciuto. A raccontare la storia di Massimo Fisanotti, calusiese morto a 48 anni, è la sorella Nadia. Che parte da lontano, nel descrivere suo fratello «un tipo da vivi e lascia vivere - racconta -, riservato».
Parte da lontano, dicevamo, cioè dalla sua storia clinica. Vent’anni fa era già stato protagonista di un caso di mancata diagnosi da parte dei medici.
«Nel 2003 - precisa ancora Fisanotti - aveva avuto un’ischemia che non era stata riconosciuta. Siamo andati al pronto soccorso di Chivasso ed è stato rimandato a casa, poi siam dovuti correre di nuovo e chiamare un’ambulanza, da qui è stato trasferito a Ivrea e poi al San Giovanni Bosco. Da allora prendeva la cardioaspirina ed era sotto controllo, questo episodio non aveva creato disagi successivi».
Da quell’episodio si salta direttamente a lunedì 17 giugno.
«Ha accusato mal di stomaco - spiega ancora la sorella - ed è rimasto a casa. Il martedì è andato a lavorare, ma il mercoledì stava ancora male e ha preferito restare a casa. Verso l’una sono arrivata a casa per pranzare con i miei genitori, lui non ha pranzato e mi ha detto che accusava dolore al torace, allo stomaco e aveva rimesso una volta o due. Così gli ho suggerito di andare al poliambulatorio, dove seppure non ci fosse il suo medico curante, avrebbe potuto trovare un altro medico. E così è stato. Questo medico gli ha prescritto farmaco gastro-instesinale. Rassicurato ha preso la pastiglia e si è coricato. Il giorno dopo, però, i miei genitori si sono accorti che non si alzava. Siamo andati a svegliarlo, ma ormai era morto».
Per chiarire se ci siano o meno responsabilità nella morte di Fisanotti, la procura di Ivrea ha aperto un fascicolo senza ipotesi di reato o indagati, soltanto per “atti relativi alla morte di...”, che ha permesso di svolgere l’autopsia.
La chiosa di Nadia Fisanotti è amara. E lascia molto su cui riflettere. «La mia opinione è che i medici dovrebbero tornare alla scienza e alla coscienza - precisa -, per non essere superficiali nelle diagnosi. Alla scienza, perché non l’abbiamo mandato da un meccanico, ma da un medico. Alla coscienza perché chi sceglie questo tipo di professione deve avere anche una certa dose di umanità».
Fisanotti lavorava a Torino ed era un operaio con dieci anni di competenza su frese tradizionali, rettifiche e tornio, costruzione linee di trasporto motorizzate, costruzione stampi per materie plastiche, uso carrello elevatore, operatore su frese a controllo numerico, con corso di programmazione frese e torni e come disegnatore cad/cam.