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Ombre cinesi dietro Hamas



Pechino ha aiutato indirettamente con armi, tecnologia e materiali vari i terroristi di Gaza. Una mossa che si può comprendere solo guardando al grande «risiko» geopolitico di oggi.

Un mistero aleggia ancora sul 7 ottobre 2023, data della serie di attentati di Hamas contro Israele: chi ha paralizzato per ore le comunicazioni nel sud di Israele quella mattina? Non certo i terroristi palestinesi, neanche lontanamente in grado di imbastire una simile impresa. Chi allora? Le autorità di Gerusalemme, a precisa domanda, rispondono: «Per il momento sappiamo solo che l’attacco è arrivato da un’entità statuale, e non da Hamas». E quali sarebbero queste «entità statuali» in grado di farlo? Piuttosto facile: fuori dall’Occidente solo Iran, Nord Corea, Russia e Cina. Uno degli errori più comuni commessi dalla comunità internazionale, infatti, è attribuire esclusivamente ad Hamas e alla Jihad islamica palestinese le responsabilità dell’accaduto. Non è un segreto per nessuno che, per esempio, la Repubblica Islamica fornisca denaro, attrezzature, addestramento, intelligence e sostegno diplomatico ai gruppi terroristici di Gaza. Quello che non sapevamo sinora, invece, è il ruolo preciso ed eventualmente il tipo di sostegno offerto loro da parte della Repubblica popolare cinese.

Quel che stupisce, infatti, è che l’esercito israeliano (Idf) abbia scoperto a Gaza vasti depositi di materiali provenienti non da Teheran o da Damasco, bensì direttamente dalla Cina. Non si tratta solo di lotti di apparecchiature per la raccolta informazioni e altre forniture militari provenienti da Pechino, ma anche armi: fucili d’assalto (Qbz); lanciagranate automatici (Qlz87); mirini telescopici per fucili; cartucce per M16; dispositivi di ascolto e comunicazione avanzate; armi tattiche; radio militari ed esplosivi. La scoperta di grandi quantità di esplosivi cinesi è particolarmente allarmante, dato che sembra che Hamas li abbia acquisiti molto di recente. Inoltre, l’Idf avrebbe individuato anche tecnologia missilistica cinese in uno dei laboratori di Hamas.

Nel gennaio 2024, Pechino con uno stringato comunicato ha negato con forza di aver fornito attrezzature militari di alta qualità a Hamas, avanzando l’ipotesi autoassolutoria secondo cui quelle armi erano forniture militari destinate all’Iran, e che semmai gli iraniani le hanno indirizzate poi verso la Striscia di Gaza, senza il consenso esplicito dei funzionari cinesi (per inciso, Pechino non ha mai condannato l’attacco terroristico di Hamas). Che Teheran abbia fornito l’addestramento necessario per l’uso di tali attrezzature, è certo. Così come è acclarato che la tecnologia militare cinese si ritrova oggi nei missili utilizzati da gruppi terroristici come Hezbollah (missili da crociera antinave C-802), gli Houthi (tecnologia missilistica balistica antinave) e altri gruppi filo-iraniani in Iraq.

Figura centrale nel rapporto tra Hamas e la Cina è il leader dell’ala militare di Hamas, Mohammed Dief, mente dell’attacco del 7 ottobre. Già nel 1996, l’Olp (l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina di Yasser Arafat) lo inviò proprio in Cina a studiare artiglieria e missilistica presso l’Ordnance Engineering College a Shijiazhuang, nella provincia di Hebei. Durante la sua permanenza in Cina, sposò due donne musulmane cinesi, e le portò a Gaza nel 2000. Da allora, una delle mogli sarebbe una sorta di «ufficiale di collegamento» con la leadership del Partito comunista, mentre consiglieri dell’Esercito di liberazione cinese avrebbero contribuito a progettare e costruire i tunnel sotto Gaza da cui sono partiti gli attacchi. Secondo i servizi segreti israeliani, anche Ismail Haniyeh - leader politico di Hamas nella Striscia (nel 2019 ha poi lasciato Gaza ed è fuggito in Qatar, dove ha ottenuto asilo politico e da dove continua a dirigere l’organizzazione) - avrebbe studiato all’Università Renmin di Pechino e potrebbe aver ricevuto una formazione su temi legati alla sicurezza. Secondo fonti di intelligence occidentali, l’ipotesi che la Cina fosse informata dei piani di Hamas per «invadere» Israele il 7 ottobre, non è da scartare.

Per inquadrare la collaborazione tra il Dragone e Hamas serve poi ricordare il settembre 2023, quando Israele e Arabia Saudita concludono le trattative per il riconoscimento di Israele, nel quadro degli storici Accordi di Abramo. I vantaggi per Riad sono significativi (vedi le garanzie Usa per un trattato di mutua difesa, le minori restrizioni sulla vendita di armi, l’assistenza per il nucleare civile), e per Washington lo sono ancora di più: può finalmente unire due dei loro alleati più solidi in Medio Oriente, Riad e Gerusalemme appunto, limitando al contempo l’ingerenza nella regione da parte di potenze nemiche come Russia e Cina, con quest’ultima in particolare che punta a intrufolarsi dentro la casa regnante saudita. Gli Accordi di Abramo, infatti, sono concepiti proprio per riportare l’Arabia sotto l’ombrello di sicurezza americano, e vanificare così la distensione avvenuta nel marzo 2023 (mediata proprio dalla Repubblica popolare cinese) tra Iran e Arabia Saudita. È importante notare che Riad in quell’epoca ha appena messo un piede dentro l’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai: un organismo intergovernativo politico-economico, voluto da Pechino come contraltare degli organismi internazionali filo-occidentali, di cui la Russia è Paese fondatore e l’Iran è membro a pieno titolo.

Questo scenario evidenzia una delle principali ragioni per cui Pechino, in maniera speculare a Washington, cerca di contrastare qualsiasi tentativo di riconciliazione tra Riad e Gerusalemme, nel tentativo di attrarre a sé i monarchi sauditi per strapparli definitivamente dalla sfera d’influenza statunitense. Il leader cinese Xi Jinping, infatti, è consapevole che l’Arabia Saudita sta investendo sì nella difesa militare (cosa che la rende ancora oggi dipendente dagli Usa), ma soprattutto investe nella Vision 2030, il faraonico progetto di ammodernamento voluto da Mohammed bin Salman, al quale servono cifre da capogiro in un lasso di tempo davvero breve. Soprattutto, Bin Salman deve accaparrarsi materiali e tecnologia in quantità tali che nel mondo solo la Cina può garantirgli a prezzi modici. Ecco perché Xi si presenta a Palazzo Reale di Riad nel dicembre 2022 con un listino dei prezzi scontatissimo, inaugurando così una nuova «guerra fredda» con gli Stati Uniti, dove il Medio Oriente torna a essere centrale.

Di più, la Cina a quel tempo ha già siglato un simile accordo di partenariato strategico globale con l’Iran, arcinemico di Usa e sauditi, della durata di 25 anni. Ma questo, anziché scoraggiare Riad, secondo il governo cinese è semmai funzionale a far comprendere come la mediazione e la pace in Medio Oriente non passino più per i buoni uffici della Casa Bianca, ma dalla diplomazia di Pechino. D’ora in avanti - è il messaggio di Xi per Bin Salman - l’ago della bilancia per le intese politico-economiche regionali può essere la Cina. L’America non resta a guardare: nel settembre 2023 il presidente Usa Joe Biden riunisce i leader di India, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Ue che, insieme, annunciano il lancio del Corridoio economico India-Medio Oriente-Europa (Imec). L’occasione è il G20 in India, Paese che più di ogni altro ha nella Cina il proprio antagonista. L’Imec è in un certo senso «l’anti Via della seta» cinese: una nuova rotta commerciale che collegherà l’India al Medio Oriente e all’Europa attraverso ferrovie e porti. Un metodo quanto mai efficace escogitato da Washington per tagliare fuori Pechino (già allontanata dal Vecchio continente dopo «l’assalto» della Belt and Road Iniziative, poi disarticolata).

Ebbene, la Cina ha imparato la lezione americana e, nel tentativo di restituire il colpo, ha brigato per far fallire il piano Imec. Il che non significa che abbia armato la mano dei terroristi islamici che hanno ordito un piano criminale contro Israele. Sta di fatto, però, che dopo il 7 ottobre il Corridoio economico India-Medio Oriente-Europa è stato sospeso. Questo, comunque lo si voglia interpretare, è un fatto.

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