Se il follower dice addio all’influencer
diventare influencer è sempre più difficile perché gli sponsor chiedono un livello sempre più alto di specializzazione nei video e quant’altro, gli utenti dopo gli scandali (Ferragni in testa) hanno perso quote di fiducia in questi testimonial della rete, gli stessi utenti quando vedono che un influencer è sponsorizzato cominciano a dubitare della sua serietà.
Intendiamoci, la questione non è di tipo censorio, cioè un godimento dato dal vedere in crisi un mondo, quello degli influencer, che fino a prova del contrario è una realtà legittima dove evidentemente c’è chi parla, c’è chi propone contenuti e c’è chi tali contenuti li ascolta e se ne nutre. Generalmente un influencer, escluso alcuni casi, non fa presa per ciò che veicola, che spesso ha una sostanza nulla, ma per altri due motivi: il primo è che quel nulla che esprimono equivale al nulla che hanno in testa coloro che li seguono, tra nulla si intendono; il secondo è che molti di loro agiscono su tendenze dell’animo umano all’emulazione, a vizi come l’invidia e la gelosia e a tendere a vivere in un mondo che, se pure virtuale, anzi, proprio perché virtuale, li strappa a un’esistenza reale priva di contenuti, di valori, di ideali per buttarsi a capofitto dentro una dimensione irreale, spesso molto lussuosa, certamente attraente per menti deboli.
Perché è un buon segnale questo che fa disamorare molti seguaci degli influencer? Perché evidentemente gli scandali hanno giocato un ruolo di spinta alla disaffezione. Il fatto che TikTok possa chiudere i battenti negli Stati Uniti il prossimo anno e lasciare 170 milioni di utenti senza un punto di riferimento è certamente una prospettiva che non incoraggia a credere negli influencer. Come abbiamo accennato, abbiamo visto con il Pandoro-gate di Chiara Ferragni quanto esso abbia influito, ma potremmo citare anche il caso dell’Estetista Cinica Cristina Fogazzi che ha affittato l’antica Biblioteca Nazionale Braidense di Brera al costo di 95 mila euro per un evento trash, e poi il caso di una nota influencer americana, la Kardashian, che è stata multata per 1,26 milioni di dollari per aver pubblicizzato, in modo occulto, società di criptovalute facendone salire il prezzo e vendendo successivamente le proprie quote ai danni dei follower.
Secondo il quotidiano The Wall Street Journal lo scorso anno il 48 per cento dei creator digitali ha guadagnato meno di 15 mila dollari, mentre appena il 13 per cento è riuscito a sfiorare il tetto dei 100 mila. Come ha commentato giustamente Il Messaggero di Roma, «cifre che rendono il sogno di grandi guadagni “facili” grazie ai contenuti digitali sempre più simile a uno dei tanti lavori sottoretribuiti della new economy». Questi scricchiolii del sistema sono tutti piccoli segnali che vanno in controtendenza rispetto all’opinione di coloro che da tempo sostengono, incoscientemente, che la sostituzione del virtuale al reale sia un fenomeno positivo che possa apportare benefici. Poi ci sono quelli che ritengono questo mondo una specie di catastrofe naturale, come fosse una bomba d’acqua contro cui non si può fare niente e risulta essere anacronistico, fuori dal tempo, chi si azzarda a sollevare critiche e allarmi sul pericolo della dipendenza digitale che in Italia ha raggiunto la quota di 300 mila individui. Certo, non tutti coloro che sono follower sono malati ma molti sono certamente borderline, cioè persone che più o meno coscientemente hanno un rapporto poco sano con i vari «device».
C’è un’altra notizia che mi ha personalmente molto colpito ed è quella che in Italia ci siano 50 mila casi di hikikomori, come riferito dal ministro Giuseppe Valditara in seguito alla presentazione della Relazione annuale al Parlamento sul fenomeno delle tossicodipendenze in Italia 2024. Chi sono gli hikikomori? Il termine viene dal giapponese e significa «stare in disparte» ed è utilizzato per descrivere un giovane che si confina volontariamente in casa, isolandosi da tutto per un periodo di almeno sei mesi. Ebbene, questa cifra è aumentata notevolmente negli ultimi anni. Prima era un problema praticamente solo nipponico, ora è mondiale e purtroppo anche italiano.