World News in Italian

Migranti, i morti nel deserto il doppio che in mare. Sepolti sotto la sabbia

Di loro non c’è neanche una immagine. Non ci sono navi di salvataggio. Solo fosse comuni disperse in una immensa distesa di sabbia.  Migranti: si stima un numero di vittime nel deserto doppio di quelle che avvengono in mare.
Morti nel deserto

Rifugiati e migranti continuano ad affrontare forme estreme di violenza, violazioni dei diritti umani e sfruttamento non solo in mare, ma anche sulle rotte terrestri attraverso il continente africano, verso le coste del Mediterraneo. È quanto emerge da un nuovo rapporto pubblicato il 5 luglio dall’Unhcr, l’Agenzia Onu per i Rifugiati, dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim) e dal Mixed Migration Centre (Mmc), intitolato “In questo viaggio, a nessuno importa se vivi o muori” (Volume 2).


Se guardiamo le prime 10 nazionalità di coloro arrivati in Italia attraverso il Mediterraneo centrale nel periodo 2018-2022, alcune hanno un alto tasso di riconoscimento delle domande di asilo. Si tratta di siriani (95,23%), maliani (60,32%) e sudanesi (83,25%). E le persone che attraversano il deserto del Sahara sono più di quelle che attraversano il Mar Mediterraneo, mentre si presume che le vittime siano il doppio di quelle che avvengono in mare. Il rapporto getta luce sui pericoli molto meno documentati e pubblicizzati che affrontano rifugiati e migranti su queste rotte terrestri.


Il rapporto, che copre un periodo di raccolta dati di tre anni, segnala anche un aumento del numero di persone che tentano queste pericolose traversate terrestri e dei rischi di protezione che corrono.


Questo è in parte il risultato del deterioramento delle situazioni nei Paesi di origine e in quelli di accoglienza – con il divampare di nuovi conflitti nel Sahel e in Sudan, l’impatto devastante dei cambiamenti climatici e delle catastrofi su emergenze nuove e protratte nell’Est e nel Corno d’Africa, nonché manifestazioni di razzismo e xenofobia che colpiscono rifugiati e migranti.


Il rapporto rileva inoltre che in alcune parti del continente, i rifugiati e i migranti attraversano sempre più spesso aree in cui operano gruppi di insorti, milizie e altri attori criminali e dove sono diffusi il traffico di esseri umani, i rapimenti a scopo di riscatto, il lavoro forzato e lo sfruttamento sessuale. Alcune rotte di contrabbando si stanno spostando verso aree più remote per evitare zone di conflitto attivo o controlli alle frontiere da parte di attori statali e non statali, sottoponendo le persone in movimento a rischi ancora maggiori. 

Tra i rischi e gli abusi denunciati da rifugiati e migranti ci sono tortura, violenza fisica, detenzione arbitraria, morte, rapimento a scopo di riscatto, violenza sessuale e sfruttamento, riduzione in schiavitù, traffico di esseri umani, lavoro forzato, espianto di organi, rapina, detenzione arbitraria, espulsioni collettive e respingimenti. Tra i primi cinque luoghi in cui il rischio di violenza sessuale e di rapimenti a scopo di riscatto è più spesso segnalato c’è la Libia, seguita dal deserto del Sahara, dal Mali, dal Niger e dal Sudan.

Le bande criminali e i gruppi armati sono indicati come i principali responsabili di questi abusi, oltre alle forze di sicurezza, alla polizia, ai militari, agli ufficiali dell’immigrazione e alle guardie di frontiera. Nella sezione orientale della rotta, i militari e la polizia sono stati percepiti come i principali responsabili delle violazioni dei diritti umani dal 48% degli intervistati, contro il 20% e il 21% riportati rispettivamente nelle sezioni settentrionale e occidentale della rotta.

Nonostante gli impegni assunti dalla comunità internazionale per salvare vite umane e affrontare le vulnerabilità, in conformità con il diritto internazionale, le tre organizzazioni avvertono che l’attuale azione internazionale è inadeguata.


Lungo la rotta del Mediterraneo centrale si registrano enormi lacune in termini di protezione e assistenza, che spingono rifugiati e migranti a proseguire in viaggi pericolosi. Il sostegno specifico e l’accesso alla giustizia per i sopravvissuti a varie forme di abuso sono raramente disponibili lungo le rotte. Il sostegno è ostacolato anche da finanziamenti inadeguati e restrizioni all’accesso umanitario (anche in luoghi chiave come i centri di detenzione informale e le strutture di accoglienza).


Da parte loro, l’Unhcr, l’Oim, i partner e diversi governi hanno potenziato i servizi di protezione e assistenza salvavita, i meccanismi di identificazione e di indirizzo lungo le rotte – ma l’azione umanitaria non è sufficiente.
Le organizzazioni chiedono risposte concrete di protezione lungo le rotte per salvare vite umane e ridurre le sofferenze, nonché una spinta ad affrontare le cause profonde che spingono le persone alla fuga e i fattori che determinano i movimenti irregolari, attraverso azioni positive per la costruzione della pace, il rispetto dei diritti umani, la governance, il contrasto alla disuguaglianza, il cambiamento climatico e la coesione sociale, nonché la creazione di percorsi sicuri per migranti e rifugiati. Questi dovrebbero riguardare i Paesi di origine, asilo, transito e destinazione.


Le organizzazioni sperano che i risultati del rapporto rafforzino l’azione per affrontare le attuali lacune nella risposta alle persone in movimento”.

Life Support”: le testimonianze delle persone che abbiamo soccorso nel Mediterraneo

Provengono da più di 25 Paesi le persone soccorse dalla Life Support, la nave salvavita di Emergency, da dicembre 2022: Mali, Sudan, Senegal ma anche Bangladesh, Palestina, Siria… “Dall’Africa al Medio Oriente, portano con sé storie diverse e speranze di una vita migliore, lontano da guerre, povertà, discriminazioni.

Tanti ci raccontano di lunghi viaggi, mesi o anni in cammino fino ai Paesi costieri di transito: la Libia e la Tunisia.

Qui vi riportiamo le parole che alcuni di loro hanno condiviso con il nostro staff. “L’ho capito molto presto…”

“Vengo dal Sud Sudan, ma dal 2011 me ne sono andato per fuggire dai conflitti nel mio paese.

Con la mia famiglia siamo prima andati in un campo per rifugiati in Kenya, poi in uno in Uganda e infine nel 2017 siamo andati in Sudan, a Khartoum.

Sono stati anni molto difficili, senza stabilità, sicurezza, mi sentivo sempre estraneo alla situazione intorno a me.

A Khartoum vivevamo nel campo di Mayo, dove mi ricordo che Emergency aveva un ospedale per bambini. Per fortuna io non ci sono mai dovuto andare, ma ho degli amici che sono stati portati lì per farsi curare.

Nel 2020 ho deciso di andare in Libia per provare a raggiungere l’Europa, non vedevo possibilità per me a Khartoum.

La sua famiglia, invece, è rimasta a Khartoum, dove da oltre un anno si combatte un conflitto di cui il mondo sembra essersi dimenticato, ma che nel Paese ha provocato il maggior numero di sfollati interni al mondo.

Qui siamo presenti dal 2003, pur con le molte difficoltà legale al conflitto continua a operare nel Paese con ospedali, cliniche e centri pediatrici per assistere la popolazione e garantire il diritto alle cure, nella speranza che la guerra possa finire al più presto.

“Dal Sudan alla Libia è stato un viaggio difficile e pericoloso, soprattutto nella zona di deserto tra il Sudan e la Libia dove molte persone che viaggiavano con me hanno perso la vita.

In Libia la situazione per le persone subsahariane è davvero difficile, non sapevo quanta discriminazione razziale ci fosse in quel Paese, ma l’ho capito molto presto. Sono stati 4 anni davvero lunghi, anche perché buona parte di quel tempo l’ho passata in prigione. Il momento più difficile è stato quando sono stato per 5 mesi in prigione e mi sono anche ammalato, per settimane non riuscivo ad alzarmi in piedi, pensavo di morire.

Spero che in Europa io e tutte le persone che sono state soccorse insieme a me saremo trattati con rispetto, che avremo la possibilità di crearci una nuova vita lontano dai conflitti e dall’ingiustizia”.

Un ragazzo di 22 anni proveniente dal Sud Sudan | soccorso il 26 giugno 2023

Ce ne siamo andate senza dire niente a nessuno. Non sannoche sono qui adesso, come io non sapevo dove sarei andata dopo aver lasciato il Ghana”

Sono partita dal Ghana circa un anno fainsieme a una mia amica. – racconta una ragazza di 25 anni – Il Ghana è un bellissimo Paese ma ha molti problemi da risolvere. Ero stata minacciata da un uomo e avevo paura di restare nella mia città. La mia famiglia era preoccupataavevano paura che lui mi avrebbe fatto del male. Un’amica mi ha convinta a partire, non so se ce l’avrei fatta da sola.
Ce ne siamo andate senza dire niente a nessuno. Non sanno che sono qui adesso, come io non sapevo dove sarei andata dopo aver lasciato il Ghana. Sapevo solo che dovevo attraversare il deserto per lasciare i miei problemi alle spalle.
Spero di riuscire ad aiutare la mia amica che è rimasta in Libia. I libici sono persone molto pericolose, soprattutto con le donne, e ho paura per lei.” 
Una ragazza proveniente dal Ghana | soccorsa il 3 maggio 2024

In Libia non succede nulla di tutto questo”

È stato difficile conservare lo spirito del Ramadan durante il nostro percorso migratorio. Il digiuno non è un atto meccanico: ha a che fare con la socialità, lo stare insieme, il condividere. In Libia non succede nulla di tutto questo: non avevamo cibo nemmeno per noimorivamo di fame, non potevamo condividere nulla”.

A., 60 anni dalla Siria | soccorso ad aprile 2024

“Ecco cosa potrò dire ai miei figli”

“Nel mio Paese non c’è nessuna libertà di espressione. Ho passato più di sei anni in prigione per aver criticato il governo su Facebook.

Per sopravvivere la mia famiglia ha dovuto spendere tutti i risparmi, abbiamo anche dovuto vendere il nostro negozio. Tutto costa molto di più rispetto a pochi anni fa, non c’è lavoro, ero rovinato. Ho tre figli da mantenere: per questo ho preso la decisione di partire. ‘O muoio o arrivo in Italia’, mi dicevo. In Egitto ero già morto”.

Quello stesso Egitto con cui l’Europa sta stringendo accordi “sul controllo delle frontiere” finanziati con milioni di euro. A bordo della Life Support, dopo essere stato soccorso insieme ad altre 51 persone, ci ha raccontato il suo viaggio:

“Ho dovuto prendere in prestito da mio padre i soldi per partire, erano i suoi ultimi risparmi… Ho detto ai miei figli che avrei preso un traghetto, altrimenti sarebbero stati troppo in ansia. Sono stato in mare tante volte, sono a mio agio in acqua, ma la nostra barca faceva come una montagna russa, entrava acqua da tutte le parti, sembrava potesse girarsi da un momento all’altro, Ho avuto paura per tutto il tempo.

Ma una volta a terra, potrò finalmente dire ai miei figli che ero pronto a sacrificare tutto pur di dar loro una possibilità di avere una vita migliore”.

Un padre egiziano | soccorso a marzo 2024

“Non potevo restare in un Paese dove la violenza è usata al posto della legge”

“Ho lasciato il mio Paese, il Bangladesh, perchénon potevo sostenere la mia famiglia. Sono arrivato in Libia circa sei mesi fa per lavorare perché un conoscente mi aveva detto che avrei trovato facilmente un lavoro, che la vita costava poco e avrei avuto un buono stipendio.

Avevo poche altre opzioni, così ho deciso di lasciare la mia famiglia per mettermi in viaggio. Arrivato in Libia, insieme ad altre persone del mio Paese sono stato portato in un capannone fuori da Bengasi; ci hanno detto che avremmo iniziato a lavorare ma che saremmo stati pagati dopo tre mesi di lavoro.

Allo scadere di questo periodo, mi hanno detto che non mi avrebbero pagato e che dovevo andarmene se non volevo che mi facessero del male. Ho capito che chi mi aveva convito a partire veniva pagato dai libici per far arrivare persone dal Bangladesh e sfruttarle.

Non potevo restare in un Paese dove la violenza è usata al posto della legge. Ci ho messo tre mesi per farmi mandare dalla mia famiglia i soldi necessari per pagare il viaggio in mare. Ora sono al sicuro.”

Un ragazzo di 29 anni, dal Bangladesh | Soccorso a marzo 2024

“Vorrei solo vivere una vita dignitosa e libera.”

“Vengo dal Tigray, in Etiopia.Sono fuggito dal mio Paese per colpa della guerra. 

Da più di un anno nella mia regione c’è l’obbligo di arruolarsi per almeno un membro della famiglia, anche le donne, altrimenti si viene uccisi. 

Nella mia famiglia siamo rimasti solo io e mia madre: è stata lei a dirmi di andarmene, prima che venissero le milizie a cercarmi. Sono prima scappato a Addis Abebama lì non potevo studiare o lavorare… 

Se avessero scoperto che ero del Tigray mi avrebbero imprigionato e rimandato indietro. Quindi sono fuggito in Sudan e poi in Libia, dove ho passato otto mesi in carcere.

A volte ci appendevano per i piedi e ci picchiavano con dei tubi, chiamando le nostre famiglie per fargli sentire le nostre urlae farsi mandare i soldi del riscatto più velocemente.

Mia madre ha dovuto vendere il suo appartamento per liberarmi. Vorrei solo vivere una vita dignitosa e libera.”

F.L., 21 anni, dall’Etiopia | Soccorso a novembre 2023

“Voglio solo vivere in pace e in libertà”.

È un ragazzo siriano a dircelo, a bordo della Life Support. Ha lasciato il suo Paese, racconta, “per le difficili condizioni di vita e della situazione politica.A causa della guerra, quando un giovane diventa maggiorenne è obbligato a prestare servizio nell’esercito per diversi anni, di solito dieci”.

“Sono partito perché non volevo diventare un soldato, vorrei invece finire i miei studi in giurisprudenza. Non è stato facile arrivare fino a qui e sono sicuro che ci saranno altre difficoltà una volta arrivato in Europa, ma sono determinato e non voglio perdere la speranza. Voglio supportare la mia famiglia come posso e ripagare l’Europa per la sua accoglienza, attraverso il mio lavoro”.

I., 27 anni, dalla Siria | soccorso a ottobre 2023

L’unica possibilità”

“Alcune volte, mentre eravamo in Libia, ho pensato di tornare indietro. Vivevamo in condizioni igieniche pessime, soprattutto per un bambino così piccolo, che ha bisogno di attenzioni continue. Ma l’unica possibilità che avevamo per dargli una vita migliore era dall’altra parte del mare”.

Mentre ci racconta la sua storia sul ponte della Life Support, N. abbraccia il figlio. Ha solo 7 mesi.

“Per partire”, dice “abbiamo dovuto vendere la casa di famiglia. Solo mio marito è rimasto in Siria, a prendersi cura dei suoi genitori. Sono anziani e non possono muoversi”.

Ora, raggiunta la terraferma, spera di riuscire ad arrivare in Germania, “ho un fratello che vive lì da diversi anni”.

Per dare a suo figlio un futuro migliore, lontano dalla guerra.

N. ha 24 anni | soccorsa ad agosto 2023 insieme al figlio di 7 mesi

“Ho ancora tante cicatrici sul corpo”

“In Libia non ci sono diritti per i migranti, possono ucciderti per strada e a nessuno importa. Ma anche in Tunisia c’è molto razzismo contro i neri. A Sfax attaccano spesso noi africani subsahariani. Vengono nelle case in cui viviamo, ci rubano i soldi, i telefoni, ci picchiano anche per ore se non abbiamo soldi. Ho ancora tante cicatrici sul corpo”.

C. è fuggito dalla Sierra Leone, “dove molti membri della mia famiglia sono stati uccisi perché considerati oppositori politici” ci ha raccontato.

“Sono dovuto scappare in Marocco, ho passato mesi nel deserto, quando sono arrivato in Libia ho visto uccidere diversi miei compagni di viaggio”.

C. ha 24 anni | soccorso a luglio 2023

Questa è l’umanità che vorremmo respingere. Grazie a chi ha salvato loro la vita e dato un futuro di speranza. Sono gli eroi di pace. Che la fortezza-Europa, con i suoi governi securitari (vedi Italia), combatte, criminalizza, invece di sostenerli. Una vergogna infinita.

L'articolo Migranti, i morti nel deserto il doppio che in mare. Sepolti sotto la sabbia proviene da Globalist.it.

Читайте на 123ru.net