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Nel Kurdistan iracheno c’è ‘tolleranza cento’ per la violenza domestica

Nel Kurdistan iracheno c’è ‘tolleranza cento’ per la violenza domestica

Secondo un recente rapporto di Amnesty International, le autorità del Kurdistan iracheno negano alle vittime di femminicidio e alle sopravvissute a stupri, pestaggi e altre torture l’accesso alla giustizia e ostacolano coloro che cercano salvezza nei quattro rifugi gestiti dalle istituzioni. In assenza di dati completi, funzionari del governo regionale hanno dichiarato che tra il […]

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Secondo un recente rapporto di Amnesty International, le autorità del Kurdistan iracheno negano alle vittime di femminicidio e alle sopravvissute a stupri, pestaggi e altre torture l’accesso alla giustizia e ostacolano coloro che cercano salvezza nei quattro rifugi gestiti dalle istituzioni.

In assenza di dati completi, funzionari del governo regionale hanno dichiarato che tra il 2022 e il 2023 sono stati commessi 74 femminicidi. Nel 2022 la Direzione per il contrasto alla violenza contro le donne e la famiglia ha ricevuto 15.896 denunce di violenza domestica. I numeri relativi al 2023 non sono disponibili.

Il principale problema è quello dell’inefficacia delle denunce. Le procedure sono lente ed estenuanti, i giudici prendono spesso le parti del maschio predatore ponendo alla vittima domande umilianti e privilegiano l’unità del nucleo familiare rispetto all’incolumità della denunciante.

Non è raro che, in cambio del ritiro della denuncia, il giudice chieda al denunciato o alla sua famiglia di sottoscrivere un “impegno a non reiterare il danno”, una misura discrezionale priva di valore legale, che rimanda le sopravvissute alla violenza esattamente nel luogo e dall’uomo da cui avevano tentato di fuggire.

Amnesty International ha appreso che, dopo la firma di tale “impegno”, molte donne e ragazze sono state assassinate. Nel settembre 2020 due sorelle di 17 e 19 anni sono state uccise un mese dopo che erano state convinte a ritirare la denuncia, a lasciare il rifugio e a tornare a casa. In un altro caso, il fratello di una ragazza che, a sua volta, era rientrata a casa, le ha mozzato entrambe le orecchie e l’ha rasata a zero. Non è mai stato arrestato.

Gli stereotipi di genere fanno la loro parte e producono re-vittimizzazione. A una ragazza che era rimasta incinta dopo che era stata stuprata dal fratello, il giudice ha detto: “Se ti fossi comportata bene, non sarebbe successo”. La famiglia l’ha poi convinta a ritirare la denuncia. Un altro giudice, in un caso che riguardava lo stupro di una ragazza di 16 anni da parte del cugino di 26, ha cambiato il capo d’accusa da “stupro di una minorenne” (pena prevista: 15 anni di carcere) ad “adulterio” poiché “l’imputato era sposato e aveva una famiglia cui badare”.

Che dice la Legge sulla violenza domestica, entrata in vigore nel 2011? Sta chiaramente dalla parte dell’unità familiare a scapito della protezione delle donne e delle ragazze e prevede una procedura di riconciliazione, solo fallita la quale si può andare a processo.

Le pene non sono adeguate alla gravità dei reati commessi, considerati minori: gli atti di violenza domestica, compresi stupri e percosse fisiche, sono puniti con un massimo di tre anni di carcere. È vero che al giudice è attribuito il potere discrezionale di aumentare le pene, ma a causa della mancanza di direttive chiare e dei radicati stereotipi di genere ciò accade raramente.

Nonostante, due anni fa, il codice penale sia stato emendato per cancellare “l’onore” dall’elenco delle circostanze attenuanti in caso di omicidio o di altri gravi reati contro le donne, i delitti d’onore restano impuniti.

Il sistema di protezione delle donne e delle ragazze, che opera attraverso la Direzione per il contrasto alla violenza contro le donne e la famiglia e quattro rifugi gestiti dal ministero del Lavoro e degli Affari sociali, è gravemente privo di risorse e di personale. Amnesty International ha visitato tre dei quattro centri: strutture fatiscenti, sovraffollate e con personale insufficiente. Le donne e le ragazze possono entrarvi solo su ordine di un tribunale e solo se hanno presentato una denuncia. Per chi non lo ha fatto, e i motivi sono ben comprensibili, non c’è protezione.

All’interno dei centri, l’accesso ai telefoni e a Internet è fortemente limitato. Il personale è esausto. Un funzionario della Direzione per il contrasto alla violenza contro le donne e la famiglia ha ammesso ad Amnesty International: “Una volta entrate nei rifugi, la vita delle donne e delle ragazze si ferma. Osservo quelle che entrano coi segni delle ferite, con gli occhi pesti per i pugni ricevuti. Qualunque cosa io possa fare, una volta che lasceranno il nostro centro nel 90% dei casi torneranno da coloro che le hanno costrette a rivolgersi a noi”.

Il governo regionale curdo aveva promesso tolleranza zero nei confronti della violenza contro le donne. La realtà è che siamo ancora a tolleranza cento.

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