Intuizione e identità, la storia di Benito Nonino appartiene a tutti noi
Il segreto di una storia tutta friulana qual è stata e quale continuerà ancora a essere quella della famiglia Nonino sta nel fatto che la narrazione “distillata” dai suoi alambicchi, giù a Percoto, è quella di una Famiglia, e nello stesso di una Cultura.
Una trama tenuta insieme da vincoli di Amore. Quello che è capace di vivificare tutto, sbugiardando alla fine ogni male, per quanto estremo. Perfino la Morte.
Una storia che parte da lontano: almeno dall’incontro fra Benito e Giannola, ormai tanti anni fa. Così tanti da colmare di ricordi e di incontri, di scatti e di volti, di voci e di emozioni non solo la memoria intima e personale della loro famiglia, ma capace di diventare in un certo senso immaginario collettivo, album di famiglia condiviso.
Qualcosa che appartiene anche a noi, insomma, proprio come quella bottiglia fregiata dall’inconfondibile contrassegno alchemico che occhieggia dalle vetrine delle nostre case.
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Le radici, dicevo. La loro forza terrosa, minerale, fatta di legno e di zolla, viene molto prima della dolcezza dei grappoli e anticipa, nella taciturna ostinazione che non si arrende mai, l’ebbrezza delle sorsate. Già questo è molto friulano.
Perché impasta dentro a un solo “groppo” fatica, dedizione, coraggio, e quella vena di follia alla quale sempre si abbevera l’Utopia per potersi fare concreta, anche se nel nostro caso sarebbe molto più appropriato dire “liquida”. Questo è stato Benito. Il che significa Terra e Cielo, compresi e allacciati assieme dentro un unico abbraccio.
L’intuizione geniale nacque come sempre in controtendenza, perché aveva tutto il sapore della visione: ridare dignità alla grappa, liberandola dallo stereotipo macchiettistico del bevitore contadino, con tanto di camicia di flanella a scacchi e stivaloni di gomma verdi, capace di ingollare di tutto, in un sorso solo, purché gli facesse “girare la testa”.
Ma ormai lo sanno tutti. È storia. Quello che ha fatto Benito con la grappa, Pasolini fece con la lingua, Turoldo con il cinema. Portare luce sugli ultimi, dimostrando che potevano essere depositari di un’etica non etilica, che altrove si stava perdendo.
Bisognava cominciare dalla scelta della materia prima: che ricadde sul monovitigno. E nella fattispecie quello del Picolit, già di per se stesso eccellenza assoluta.
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Era il primo di dicembre del 1973. Qualche anno più tardi nasceva il premio Nonino Rist d’Aur, la cui prima edizione venne assegnata all’azienda Ronchi di Cialla per aver piantato una vigna di Schioppettino.
Ancora una volta Cultura e Natura. Fatica e bellezza. Attenzione e amore per quella Civiltà contadina di cui parlava Luigi Veronelli quando si riferiva a questa blasonata famiglia di “grappaioli”, come ebbe a definirli con l’affetto graffiante e anarchico di cui era capace, sapendo benissimo che a Percoto non era solo grappa quello che si distillava.
Al suo indiscusso Patriarca, che ci ha lasciati scivolando via in silenzio, come era nel suo stile, va riconosciuto il merito dell’intuizione.
Alla grande donna di cui si era innamorato e che adesso dovrà resistere, con dignità e fierezza, da donna friulana qual è, tutto il resto.
Da allora gli alambicchi di Borgo Nonino continuano a distillare libero pensiero. Emozione. E lo fanno attraverso le generazioni che sono seguite, di chiara impronta meravigliosamente matriarcale.
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Le ho viste, quelle donne formidabili, stringersi attorno a lui che festeggiava il suo ultimo compleanno con la stessa delicata tenerezza che hanno le foglie della pianta attorno ai chicchi dell’uva.
Qualcuno un giorno ha detto che la grappa buona deve avere il gusto intenso dell’identità. “Ma l’identitât ce êse?” si domandava il compianto Leo Zanier, intellettuale carnico di altissimo profilo, in una delle sue liriche più mordaci, dedicata per l’appunto al tema.
L’identità cos’è? È quel retaggio complesso e stratificato di simboli e di valori che si impastano con l’ambiente, il paesaggio, la memoria, la storia di un Popolo.
Ha il sapore del lavoro e della resistenza, tanto che la si riconosce nelle zolle dei campi o nella squadratura delle pietre di fiume, quelle con cui per secoli si sono tirate su le case dei nostri borghi rurali e le pievi, strappandole a una terra dura, spesso avara di tutto.
Si esprime attraverso una lingua ereditata dagli antenati, dalle madri soprattutto, che ne trasmettono i princìpi col latte del seno e con la saliva dei baci; è un repertorio ricchissimo di voci e di segni capaci di tramandare sapienza e canto, invettiva e amore.
Già, ancora l’Amore! A tutti coloro che hanno attraversato il nostro tempo abbiamo sempre chiesto che ci lasciassero qualcosa di sé che inevitabilmente è divenuto parte inalienabile di ciò che siamo, di ciò che siamo diventati. Perché l’identità è dinamica, duttile, multiforme. Si trasmette con il canto, con il tono della leggenda. Perfino con una sorsata di grappa.
Scommettere su di lei significa avere fiducia nel futuro più che nel passato. Significa continuare ostinatamente a credere nella vendemmia, malgrado tutto.
In alto i calici, dunque. Si metta da parte la tristezza, oggi. Perché Benito è tornato a essere “spirito”. In fondo è rimasto fedele, fino alla fine, al suo destino.