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​Ursula von der Leyen, la baronessa dimezzata

Dopo il voto francese, con la crisi del macronismo e del predominio della tecnocrazia, anche a Bruxelles si cerca affannosamente un equilibrio. Von der Leyen, presidente della Commissione, punta alla riconferma. Ma in Europa cambia l’asse del potere.

Come avrebbe detto Totò, è un’Europa «a prescindere». Da tutto. Dal voto popolare, dalla composizione dei governi dei 27 Stati, dai conflitti geopolitici, dall’Europarlamento in disordinata evoluzione, dall’economia che condanna il Vecchio continente a una preoccupante marginalità. I conti li ha fatti il quotidiano economico Financial Times: l’Ue vale oggi il 13,3 per cento del Pil mondiale; nel 1993 quando debuttò il mercato unico pesava quasi il 21 per cento. Gli Stati Uniti producevano allora un quarto del Pil mondiale e oggi sono quasi al 27 per cento. La torta dell’economie occidentali - valeva nel ’93 circa il 70 per cento del prodotto globale - si è ridotta solo per gli europei. Ma a Bruxelles fanno finta di non saperlo, soprattutto ora, dopo il voto francese, che dovrebbero prendere atto che l’asse Parigi-Berlino è malmesso e che la fu «locomotiva Germania» ha smesso di trainare (se va bene quest’anno crescerà dello 0,3 per cento).

A palazzo Berlaymont, «reggia» brussellese della baronessa Ursula von der Leyen, il rumore dei fatti arriva ovattato. Contano solo i «caminetti» per gli accordi. C’è sì una «sindrome francese» - derivante dal voto dell’Esagono - che rischia di far apparire la presidente della Commissione uscente e (forse) rientrante come Maria Antonietta che, si dice, volesse dare brioche al popolo che pativa la fame senza più pane. Il 18 luglio prossimo, però, la nobildonna teutonica potrebbe avere un brusco risveglio. L’aula di Strasburgo dovrà votarle la fiducia e, per come stanno procedendo le cose, nulla è scontato. Sulla carta la Von der Leyen - rappresenta in toto l’eurocrazia e il sistema tedesco su cui la Germania ha costruito l’Europa a sua immagine e somiglianza - conta su 189 voti dei popolari di cui la sua Cdu è magna pars, 136 dei socialisti che hanno dopo la débâcle di Olaf Scholz in Germania le polveri assai bagnate e i 74 di Renew che è quel che resta di Emmanuel Macron. Equilibri peraltro molto precari. Fluidi, come si dice oggi. Sommandoli tutti, fanno 399 voti: è la vecchia maggioranza Ursula che risorge come l’Araba fenice dalle proprie macerie e che come Medusa rischia di pietrificare l’Unione. L’assemblea di Strasburgo conta 720 eurodeputati e la baronessa non è così sicura di farcela. Tant’è che si sta strologando di rimandare a settembre il voto di fiducia sulla Von der Leyen, che ha sì incassato la maggioranza dei consensi nel Consiglio europeo (la riunione dei capi di governo del 27 giugno dove Giorgia Meloni, a nome dell’Italia, si è astenuta sulla baronessa e ha votato contro Antonio Costa come Alto rappresentante per gli Affari esteri e Kaja Kallas quale presidente del Consiglio Ue), ma in aula rischia di essere impallinata dai franchi tiratori.

Il rebus istituzionale è questo: a chi allargare l’accordo e pagando quali prezzi? I popolari si sono riuniti la scorsa settimana a Cascais, in Portogallo, e Manfred Weber, il capo del primo gruppo europarlamentare, ha fatto capire che l’unica intesa praticabile è quella con l’Ecr di Giorgia Meloni: i conservatori (83 eletti) peraltro sponsorizzata da Antonio Tajani (Forza Italia). Con i verdi (51 seggi) il Ppe non vuole avere nulla a che fare convinto - forse non a torto - che gli eccessi del Green deal abbiano minato la fiducia (in caduta libera: per l’ultimo sondaggio di Eurobarometro solo il 44 per cento dei cittadini del continente si fida dell’Ue) nella politica comunitaria. C’è anche un elemento molto tedesco. Il governo di Olaf Scholz - al di sotto del 33 per cento dei consensi - traballa. I liberali minacciano di andarsene, i verdi hanno rotto con gli industriali e il cancelliere socialdemocratico non sa se riucirà a farsi approvare la manovra economica per il 2025.

In queste condizioni la Cdu - che è quasi la stessa cosa del Ppe – vuole dare uno strappo a Bruxelles con gli ecologisti perché si riverberi a Berlino. La Germania ha visto crollare il suo modello economico fatto di energia a basso costo (il gas russo) esportazione selvaggia e uso della Cina come «fabbrica» al posto delle proprie industrie, moderazione salariale con un welfare robusto. Oggi il Paese si interroga se la sua produttività (è il membro della Ue dove si lavora di meno: 1.330 ore all’anno e il ministro liberale delle Finanze Christian Linder ha già detto che con questo livello i sussidi di welfare sono insostenibili) non stia drammaticamente scendendo. La diffusione verso l’auto elettrica sta mettendo in crisi il maggior comparto industriale (risale al 2021 la previsione di Eric Heymann, capoeconomista di Deutsche Bank che aveva indicato in 840 mila posti di lavoro evaporati il prezzo che la Germania avrebbe pagato ai veicoli a batteria) e d’improvviso Berlino ha scoperto che i propri sono prodotti maturi. Così come la politica del rigore a ogni costo ha costretto l’Ue a non fare manovre espansive. Solo a fronte della pandemia si è proposto il Recovery plan.

Una prova la sta fornendo Christine Lagarde, a capo della Banca centrale europea, che insiste a sostenere la necessità della stretta sui tassi - attuata con colpevole ritardo e ora perseguita con dannosa ostinazione - per domare l’inflazione solo perché lo chiede Berlino a fronte di una crescita stimata dell’eurozona che quest’anno non andrà oltre lo 0,8 per cento. Gli Usa, intanto, puntano al 2,5 per cento e la Cina al 5. Ursula von der Leyen, per succedere a se stessa, deve rinnegarsi e non ha più come riferimento né Olaf Scholz né la Francia; dove Jordan Bardella e Marine Le Pen, archiviando il macronismo, hanno dimostrato che l’Europa è nuda. È il riflesso più significativo delle legislative francesi: le campagne, la piccola borghesia, la classe media è contro l’establishment fatto di finanza, buone intenzioni e burocrazia che sono i tratti distintivi dell’Europa «chiusa nelle Ztl». Da baronessa «dimezzata», per dirla con i geniali romanzi di Italo Calvino, perché i condizionamenti che riceverà da questa composizione dell’Eurocamera sono fortissimi.

Ursula potrebbe ritrovarsi a interpretare Conte (nel senso di Giuseppe) praticando come il presidente Cinque stelle un trasformismo inusitato. Deve mitigare se non addirittura cancellare il Green deal (ciò allontana ogni sponda possibile dei verdi); deve decidere se e come organizzare la difesa comune (qui lo scontro tra la Francia che vuole la leadership e la Germania che pratica pacifismo di facciata, quello che ha indebolito l’Ue sullo scacchiere internazionale, e vende armi ovunque è durissimo); deve organizzare una politica industriale ed energetica comune a cui Berlino si è sempre opposta. Senza contare che proprio la Von der Leyen ha chiesto a Mario Draghi un rapporto sulla competitività che sarà dirompente. In sostanza l’ex presidente del Consiglio italiano - anch’egli smentendo se stesso - dirà ai 27 che il modello tedesco imposto all’Ue ha prodotto la messa ai margini dell’Europa. E che oggi, per tornare protagonisti sulla scena dell’economia della post-globalizzazione, occorrono tre condizioni: fiscalità comune (e questo non piace ai «frugali» Paesi Bassi che fanno gap sulle tasse), politica monetaria espansiva e un investimento non al di sotto dei 500 miliardi di euro, il che significa debito comune.

Con tre lustri di ritardo si predica ciò che Giulio Tremonti - allora ministro economico di Silvio Berlusconi cacciato dal Palazzo con una manovra congiunta Draghi-Napolitano-Sarkozy-Merkel - aveva previsto per salvare l’euro dalla crisi. Un euro che, a quasi un quarto di secolo dal debutto, non è ancora riuscito a diventare moneta di riferimento sui mercati globali. Nella ricetta di Draghi quei 500 miliardi vengono anche dal convogliare sugli investimenti i risparmi privati. Ciò significa andare verso un unico mercato dei capitali (la Borsa europea) e sancire l’unione bancaria. Non pare questa l’aria neppure al vertice della Bce visto che si torna a intonare la litania del Mes, il Meccanismo di stabilità per il controllo degli Stati, piuttosto che pensare a come unire le forze. Eppure c’è chi ha capito che dalle elezioni francesi è venuta una durissima lezione. Sia Jordan Bardella sia Jean-Luc Mélenchon segnalano, pur da posizioni opposte, che è ormai fuori dal tempo il macronismo, inteso come élite che spiega al popolo cosa fare. Che è poi l’atteggiamento comune all’eurocrazia. Il presidente del Partito popolare del continente Manfred Weber, molto attento a tali umori, nella portoghese Cascais ha rilanciato la necessità di dialogare con l’Italia che - lo ha riconosciuto lui stesso - in questo momento ha il governo più stabile. Dunque è un parziale chiedere scusa a Giorgia Meloni e una consistente apertura con il probabile incarico al ministro Raffaele Fitto di commissario alla Concorrenza e al Mercato interno con un allargamento della delega.

Questa scelta è un segnale preciso a Emmanuel Macron che insiste per la conferma in quel ruolo del «suo» Thierry Breton. Ma sanno benissimo, tanto Weber quanto la Von der Leyen, che in Francia gli affari europei sono prerogativa del primo ministro e non del presidente. Ammorbidire la posizione verso l’Italia, e soprattutto verso la Meloni, serve all’establishment teutonico-popolare a sterilizzare la fuga in avanti di Viktor Orbán che con i suoi «patrioti» (movimento a cui è interessata la Lega di Matteo Salvini, ma anche il Rassemblement national di Marine Le Pen) scopre un fianco a est e molto a destra dell’Europa proprio nel momento in cui l’Ungheria occupa la presidenza di turno dell’Unione.

La baronessa Von der Leyen ha bisogno più che mai del sostegno dell’Italia perché si trova orfana di governi-puntello: la Francia esce dal duello Mélenchon-Bardella comunque su posizione euroscettica, Olaf Scholz non è più padrone del proprio destino vista la sconfitta della sua Spd nelle urne, la lite continua con verdi e liberali e soprattutto l’avanzata della destra estrema di Afd nell’ex-Ddr. Lo stesso premier spagnolo Pedro Sánchez - una spalla consistente del Pse per la Von der Leyen - rischia di perdere il governo dopo che la Corte suprema spagnola ha negato l’amnistia al leader dei catalani Carles Puigdemont, requisito irrinunciabile per la desistenza dei separatisti. Il rebus dei governi europei, dunque, è spostato sul centrodestra in un momento in cui latitano le leadership franco-tedesche. E quando gli elettori hanno dato più ragione al movimento dei trattori che ai sostenitori del Green deal senza «se» e senza «ma».

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