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Luca Palamara assolto dall’accusa di rivelazione di segreti d’ufficio, 5 mesi all’ex pm Fava per accesso abusivo ai database

Luca Palamara assolto dall’accusa di rivelazione di segreti d’ufficio, 5 mesi all’ex pm Fava per accesso abusivo ai database

Al termine di una camera di consiglio durata meno di tre ore il tribunale di Perugia presieduto dal giudice Alberto Venoso ha condannato l’ex pm di Roma Stefano Rocco Fava a cinque mesi, pena sospesa, per accesso abusivo al sistema informatico, ovvero l’estrazione dal Tiap degli atti giudiziari allegati a un esposto che Fava rivolse […]

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Al termine di una camera di consiglio durata meno di tre ore il tribunale di Perugia presieduto dal giudice Alberto Venoso ha condannato l’ex pm di Roma Stefano Rocco Fava a cinque mesi, pena sospesa, per accesso abusivo al sistema informatico, ovvero l’estrazione dal Tiap degli atti giudiziari allegati a un esposto che Fava rivolse al Csm nel marzo 2019 contro alcuni colleghi di vertice dell’ufficio della procura romana.

Fava è stato invece assolto dalle accuse di abuso d’ufficio “perché il fatto non sussiste”, e da quella di concorso in rivelazione ed utilizzazione di segreti d’ufficio, insieme all’ex magistrato ed ex presidente dell’Anm Luca Palamara “per non aver commesso in fatto”. La sentenza ha richiamato il secondo comma dell’articolo 530 del codice di procedura penale, che impone al giudice l’assoluzione quando la prova è insufficiente o contradditoria.

Parzialmente disattese le richieste dell’ufficio della Procura guidata da Raffaele Cantone: i pm Gemma Miliani e Mario Formisano avevano chiesto la condanna per entrambi, a otto mesi per Palamara e a due anni per Fava, ora giudice civile a Latina. Il tribunale ha disposto anche l’immediato risarcimento delle parti civili: un euro, una cifra simbolica, come da lui chiesto, per il pm di Roma Paolo Ielo (presente in tutte le udienze del processo e anche al momento del verdetto), 20mila euro per il ministero di Giustizia, 8mila per l’associazione CittadinanzAttiva, oltre a un parziale ristoro delle spese legali.

La sentenza arriva dopo una serie di udienze iniziate il 19 gennaio 2022. In aula hanno sfilato come testi ed imputati tutti i protagonisti di una stagione di veleni che hanno attraversato e colpito alcuni dei principali esponenti della Procura di Roma, della politica e del Csm, tra cui Piercamillo Davigo, Luca Lotti, Sebastiano Ardita e altri. Palamara, come era suo diritto, non si è fatto interrogare, al contrario di Fava, che ha risposto alle domande dei pm e degli avvocati ed ha anche fornito spontanee dichiarazioni sulla vicenda.

Secondo i capi di imputazione oggetto del processo concluso poche ore fa, a Palamara e a Fava veniva contestato di aver rivelato notizie d’ufficio “che sarebbero dovute rimanere segrete”. Fava, all’epoca dei fatti sostituto procuratore nella capitale, era accusato anche di essersi “abusivamente introdotto nel sistema informatico Sicp e nel Tiap acquisendo verbali d’udienza e della sentenza di un procedimento”. Fatto che per i pm avveniva “per ragioni estranee rispetto a quelle per le quali la facoltà di accesso era attribuita”. Con lo scopo “di avviare una campagna mediatica ai danni di Pignatone, da poco cessato dall’incarico di procuratore di Roma, e dell’aggiunto Paolo Ielo“.

L’accusa ha sostenuto che Fava avrebbe acquisito atti di procedimenti penali “per far avviare un procedimento disciplinare nei confronti dell’allora procuratore Pignatone” e “effettuare una raccolta di informazioni volta a screditare Ielo, anche attraverso l’apertura di un procedimento penale a Perugia” e quindi “a cagionare agli stessi un danno ingiusto”.

Palamara era difeso dagli avvocati Roberto Rampioni, Benedetto e Mariano Buratti, mentre Fava era difeso dagli avvocati Luigi Panella e Luigi Castaldi. L’avvocato Panella preannuncia a ilfattoquotidiano.it sin da ora appello: “Leggeremo le motivazioni ma le dico subito che le appelleremo questa sentenza”. I legali di Palamara parlano all’AdnKronos di “anni di sofferenza processuale” dopo i quali “è emersa l’estraneità e l’infondatezza dell’ipotesi accusatoria”.

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