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Anche per il clima c'è il vaccino



È iniziata una corsa delle startup per realizzare un siero che abbatta le emissioni di metano degli allevamenti. Un business pericoloso per esseri umani e animali.

Quando si tratta di cambiamento climatico, un semplice vaccino può essere uno strumento potente». Lo slogan proviene da una startup agro-biotech con sede a Boston. Si chiama ArkeaBio e sul mercato ha raccolto 26,5 milioni di dollari, incluso un finanziamento di 12 milioni dalla Breakthrough Energy Ventures, una società fondata da Bill Gates. L’obiettivo è sviluppare un vaccino a tecnologia mRNA per ridurre le emissioni di metano delle mucche che, per la società, generano «l’equivalente di tre miliardi di tonnellate di CO2 all’anno e rappresentano il 6 per cento delle emissioni annuali di gas serra». Sotto l’egida della prevenzione da un’imminente pandemia climatica, milioni di capi di bestiame andrebbero vaccinati, «per ridurre le eruttazioni dei ruminanti». Le cui emissioni - «un potente gas a effetto serra (GHG) che ha un impatto maggiore sull’ambiente rispetto al biossido di carbonio (CO2)» - sono equiparate a scenari catastrofici: più gas serra «di tutti i veicoli di tutto il mondo», «di tutta la produzione di cemento nel mondo», o ancora «quattro volte le emissioni delle compagnie aeree in tutto il mondo».

A mettere in guardia contro i potenziali rischi dei «vaccini climatici» è Mariano Bizzarri, professore associato di Medicina sperimentale e direttore del laboratorio di Biologia dei sistemi presso La Sapienza: «Vaccini di questo tipo possono compromettere la salute degli animali e la qualità organolettica delle carni» spiega l’oncologo. «Se lo scopo è modificare la produzione di metano, significa che si modifica la flora batterica all’interno degli animali con conseguenze che possono essere dirompenti per la salute dell’animale e con ripercussioni anche sul microbiota umano. E sappiamo che alterazioni del microbiota concorrono alla genesi di numerose patologie, cancro incluso».

Bizzarri, che è anche membro del Comitato scientifico del ministero dell’agricoltura (Crea), stigmatizza questa misura che «non ha alcuna base scientifica, visto che il metano prodotto dagli allevamenti incide per meno del 2 per cento sulle emissioni totali». Misurare e «catturare» le emissioni di gas serra è divenuto il nuovo business del settore agroalimentare, che riguarda non solo il metano animale ma anche quello agricolo, i rifiuti e il letame. Secondo New Food Finance, un forum specializzato nella finanza alimentare, l’investimento nei vaccini climatici e in soluzioni «antimetanogene» è in progressiva espansione: 14 startup tech coinvolte nella mitigazione del metano agricolo hanno già ottenuto 991 milioni di dollari, attraverso 50 raccolte fondi, negli ultimi dieci anni. Per i nuovi ambientalisti, i cui slogan sono curiosamente identici a quelli delle multinazionali del farmaco, i principali responsabili dell’imminente catastrofe ambientale sono le aree agricole, i pascoli e gli allevamenti.

Nel maggio scorso l’Organizzazioe mondiale della sanità ha lanciato una partnership con la Fondazione Rockefeller per scoprire le pandemie causate dal «cambiamento climatico». L’investimento iniziale di cinque milioni di dollari servirà a rilevare agenti patogeni e malattie «peggiorati dall’aumento delle temperature e da condizioni meteorologiche estreme». Anche il colosso farmaceutico Astrazeneca ha dichiarato di recente che il cambiamento climatico è «una crisi di salute pubblica» che pesa sui bilanci degli Stati dai sette ai nove milioni di vite all’anno. Mentre il concetto stesso di «neutralità climatica» prevede che i Paesi dell’Unione siano chiamati a ridurre le emissioni di gas serra di almeno il 55 per cento entro il 2030 e a raggiungere la neutralità climatica entro il 2050.

Tuttavia, i dati contenuti nel database EM-DAT sui tassi di mortalità globali per ogni tipo di catastrofe ambientale (terremoti, tempeste, inondazioni, frane, siccità), raccolti dal 1900 al 2024, indicano che nel mondo le vittime di disastri naturali sono drasticamente diminuite, rispetto ai picchi del 1920-1940, «grazie a sistemi di allerta precoce, migliori infrastrutture, agricoltura più produttiva e risposte coordinate». E secondo l’ultimo Rapporto «One Health 2022 sulle zoonosi dell’Unione europea» i 27 Stati membri e l’Irlanda del Nord hanno segnalato 5.763 focolai di origine alimentare e 48.605 casi riguardanti esseri umani. I morti sono stati 64, con il tasso di decessi più alto associato alla listeriosi, seguito dall’infezione da virus del Nilo occidentale e dalla salmonellosi. A fronte di cifre che non appaiono così allarmanti, specie se confrontate con altre patologie come infarti e tumori, molti esperti sollevano dubbi sulla natura emergenziale di una transizione «green» basata più su slogan che non su analisi scientifiche accurate e indipendenti.

«Oggi l’agrozootecnia occupa il 40 per cento della superficie terrestre utilizzata dall’uomo ed è l’industria più importante per consumo di suolo. Con il settore energetico, è anche tra i maggiori responsabili di emissioni di gas climalteranti: il 30 per cento a livello globale deriva dal cosiddetto “food system”» ha dichiarato a febbraio, in un convegno all’Università di Pisa, il professor Umberto Agrimi. Medico veterinario che dal 2009 dirige il Dipartimento sicurezza alimentare, nutrizione e sanità pubblica veterinaria dell’Istituto superiore di sanità (Iss). Ospite dell’ateneo toscano, con la sua dissertazione intitolata «One Health: l’occasione per ripensare il rapporto dell’uomo con il pianeta», Agrimi ha condotto una lezione «contro le ideologie preconcette», ma basata sul mantra della decrescita felice come unica salvezza della Terra. Un’ottica decisamente opposta a quella che il governo italiano sta cercando di proporre in Europa. Il settore alimentare a livello globale, che per il nostro Paese vale circa 140 miliardi di euro e rappresenta la prima voce del Pil, secondo Agrimi sarà inevitabilmente da ripensare in chiave «One health»: «Il sistema del cibo è insostenibile perché è uno dei principali responsabili della crisi ambientale e non soddisfa i fabbisogni alimentari di tutta la popolazione globale. Accanto a milioni di persone denutrite, altrettante sono super alimentate, con un’emergenza legata all’obesità».

Secondo quel «neo vangelo» delle Nazioni Unite che va sotto il nome di Agenda 2030, anche la nostra dieta mediterranea, proclamata patrimonio culturale immateriale dall’Unesco, è destinata a cambiare o sparire. Agrimi non sembra turbato, in quanto le soluzioni sostenibili sono a portata di tavola: dai «novel food» alla «carne coltivata», a pietanze prive di sale e di zucchero «che molti miei amici non usano più», oltre ad alghe e proteine vegetali in alternativa al pesce «perché stiamo intaccando pesantemente gli stock ittici marini». Tra le slide utilizzate, non poteva mancare il grafico della «planetary diet»: «La Eat Lancet Commission è stata criticata, ma è un tentativo molto interessante di mostrare come cambiare le nostre abitudini alimentari fa bene a noi stessi e al Pianeta. E può arrivare a prevenire 11 milioni di morti premature. In Italia la vicenda della carne coltivata è semplicemente anti-storica, dato che è un altro dei tanti prodotti trasformati. Negli Usa e in Israele queste bistecche si possono già comprare e io mi fido dell’Europa, che saprà valutare. Inoltre noi non sappiamo dove produrre quel 70 per cento di proteine in più che mancheranno nel 2050: dobbiamo continuare a devastare l’Amazzonia con gli allevamenti bovini?».

A livello internazionale, l’approccio «One Health» è stato finanziato dal programma One Health European Joint Programme che, tra le tante attività, si occupa di sostenere programmi di istruzione e formazione, dottorati, rapporti, workshop e analisi da divulgare ai decisori politici. «Questo progetto, da cui abbiamo ricevuto fondi anche noi» conclude Agrimi, «che raggruppa molti istituti di sanità pubblica e di veterinaria a livello europeo, è stata forse la maggiore iniziativa di ricerca sull’approccio “One health”, dal valore di circa 90 milioni di euro».

Ma non tutti si fidano: «Questa è la soluzione di chi, di fronte alle grandi sfide ambientali, inventa soluzioni antiscientifiche come l’emissione dei crediti di carbonio» denuncia Gianni Fabbris, presidente onorario di Altragricoltura. Da tre anni, in prima linea anche nella lotta per salvare le bufale dalla soppressione indiscriminata per arginare l’epidemia di brucellosi: «All’Europa chiediamo di smantellare il modello degli allevamenti in batteria, che si regge su farmaci e antibiotici. Poi, dato che questo modello produce emissioni, per ricavarne altri profitti si escogitano i vaccini al metano. Un disegno utile solo alla concentrazione dei poteri economici di chi detiene gli strumenti per lucrare sulla situazione».

Per il consorzio Carni Sostenibili, che raggruppa aziende e associazioni del settore zootecnico, le emissioni di metano delle vacche sono, al contrario, «una parte della soluzione climatica». Nella valutazione dell’impatto ambientale degli allevamenti, «non ha senso calcolare tutto in termini di CO2 equivalente. In ambito zootecnico sono stati fatti molti passi avanti per ridurre la produzione di metano dei bovini, grazie ad additivi nei mangimi o digestori anaerobici». Inoltre, sottolineano: «Questo metano è considerato un gas di flusso perché, quando viene emesso, viene poi riassorbito. Si tratta di carbonio “riciclato”, detto anche carbonio biogenico. Al contrario dell’anidride carbonica prodotta dai combustibili fossili, che è un gas di riserva e si accumula nell’atmosfera per secoli».

Questa è anche la linea di Coldiretti, che al governo ha chiesto, e ottenuto, l’istituzione del Registro dei crediti di carbonio agroforestali «per far percepire agli agricoltori e agli allevatori che le migliorie che apportano alle loro attività verranno compensate con un credito, che potranno rivendere ai grandi inquinatori» sostiene il presidente Ettore Prandini. Il Registro dei crediti agroforestali «è stato istituito e adesso stiamo elaborando le linee guida. Entro l’anno andrà a regime, sia per i crediti forestali che per i crediti agricoli» dichiara il senatore Luca De Carlo, esponente di Fratelli d’Italia e presidente della commissione Industria, commercio e produzione agroalimentare del Senato. «I crediti di carbonio in positivo dimostrano come allevatori e agricoltori non siano inquinatori ma, anzi, importanti “trattenitori” di CO2».

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