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Il muro di casa mia alla fine della rotta balcanica: conversazione con due imbianchini

Il muro di casa mia alla fine della rotta balcanica: conversazione con due imbianchini

Oggi sono a casa mia due imbianchini egiziani. Li ha mandati l’amministratore del palazzo per sistemare una parete che una perdita del tetto ha macchiato. So che sono egiziani perché l’ho chiesto dopo che uno di loro ha rotto il ghiaccio: “Ho lasciato il deserto per ritrovarmi nel caldo di Milano”. A parlare è il […]

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Oggi sono a casa mia due imbianchini egiziani. Li ha mandati l’amministratore del palazzo per sistemare una parete che una perdita del tetto ha macchiato.

So che sono egiziani perché l’ho chiesto dopo che uno di loro ha rotto il ghiaccio: “Ho lasciato il deserto per ritrovarmi nel caldo di Milano”. A parlare è il più giovane, che avrà vent’anni o poco più. L’altro è più anziano e taciturno, non sorride come fa il primo, che scambia volentieri due parole mentre aspetta che asciughi la prima mano di pittura. La famiglia sta vicino al Cairo. L’ha lasciato partire ormai diversi anni fa. In aereo per la Turchia, poi a piedi in Grecia, dove è rimasto due anni, ha lavorato e non gli dispiacerebbe tornare. Si è trovato bene in Grecia, racconta. Ma si va e si sta dove c’è lavoro. Ha pagato 10.000 euro per affrontare il secondo viaggio. “Attraverso l’Albania, il Kosovo, la Bosnia, su fino a Vienna e poi in Italia”, dove un parente lo ha chiamato: “Vieni che ti faccio lavorare”. E infatti lavora, oggi in casa nostra. “Pago 1.200 euro di tasse”, mi dice senza perdere il sorriso che rivela i bei denti bianchi.

Trovandomi in casa mi chiede se sto lavorando. Spiego che sono di riposo, che lavorerò domani, che faccio il giornalista e, non senza imbarazzo, scrivo di stranieri in Italia, di immigrazione. Insomma, di quello che sento dire mentre lui ha vissuto sulla sua pelle. Ci si sente subito dei pirla. O almeno per me è andata così. Seguitiamo a parlare, mentre l’altro siede in disparte, né capisco se intende l’oggetto dello scambio, se parla l’italiano.

È arrivato dalla Spagna, mi spiega il ragazzo, entrato lì con un visto turistico. Il giovane è sveglio, gestisce lui il lavoro, dà lui gli ordini. Gli chiedo come si trova in Italia, ma non ha una risposta precisa, sembra quasi doverci pensare e forse sono domande che ci facciamo noi occidentali, abituati a viaggiare con passaporti che aprono porte e carte di credito che comprano tutto o quasi. O forse è solo restio a dire come la pensa a un italiano che conosce da pochi minuti, cliente della ditta per cui lavora e chissà cos’altro.

Goffamente sento il dovere di scoprirmi, di essere io a dire cosa penso dell’Italia di Salvini e Meloni. E dico che non mi piace. “Com’è Meloni, in gamba?”, chiede lui. Una domanda difficile, con troppe implicazioni per risolverla in pochi secondi, che poco rimane prima che si rimettano al lavoro. Gli dico che sembra che l’Italia non abbia bisogno degli stranieri e che invece non è così e che tutti hanno diritto di potersi costruire un futuro, delle sicurezze, una famiglia e avere dei figli da mandare a scuola. Poi, forse perché oltre a tutto il resto ha imparato anche a mostrarsi conciliante con questi italiani esasperati dall’emergenza migranti, mi dice che però capisce, “perché stranieri siamo troppi”. Convinto che in Italia ce ne siano più che in Francia, più che in Germania. Gli dico che non è così, che le richieste di permessi di soggiorno sono più alte in Germania e che del resto è normale che i più tentino di andare al Nord. Aggiungo pure che i 5 milioni di stranieri in Italia pagano più tasse di quanto non ricevano in servizi, che quindi il bilancio della loro presenza è positivo. Bilancio. Ma di cosa sto parlando? A chi mi rivolgo quando scrivo? Di certo non a lui che ha capito meglio di me il Paese in cui è arrivato, lavora e paga le tasse.

La rotta balcanica mi è appena entrata in casa, riassunta in poche parole, un elenco di Paesi e poco più, lasciando al silenzio, dietro al sorriso di circostanza, tutto quello che gli è davvero costata. Poi riprende parola. “L’altro ieri un ragazzo del mio stesso paese in Egitto è morto in mare, imbarcato per arrivare in Italia”. Dice che pure il padre di quel ragazzo era partito, e che di lui non sanno che fine abbia fatto. Dopo la rotta balcanica, irrompe quella del Mediterraneo centrale, che atterrisce anche lui per l’atroce destino e il numero di vite che ha preso in questi anni.

“Mi hanno detto che nel 1995 100 pound (sterline inglesi?) bastavano per arrivare in Europa dall’Egitto, che roba”, esclama. Gli dico che è uno schifo sentire che a lui ci sono voluti 10mila euro, messi da parte in due anni di lavoro in Grecia, per arrivare qui, in casa mia, a imbiancarmi un muro “a regola d’arte”, come ho chiesto appena arrivati.
Quel muro che non ho mai guardato e ho lasciato muffito per mesi perché poco mi importava. Un muro senza un quadro, accanto a una finestra dove raramente mi affaccio. Quel muro lo guarderò in modo molto diverso. Perché il suo bianco, da oggi, acceca.

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