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Porte aperte al 41bis



ll regime di massima sicurezza è stato molto (troppo?) indebolito. In particolare dagli interventi della sinistra. Maglie talmente larghe che hanno consentito ad alcuni boss reclusi di continuare a gestire i clan e a investire i soldi sporchi anche dal carcere duro. Adesso, però, si sta cercando di risalire la china.


C’era una volta il 41bis, il famigerato regime di massima sicurezza che riusciva ad ammorbidire finanche i criminali più incalliti. C’era una volta e non c’è più perché le continue correzioni, le rettifiche, gli accomodamenti e gli accordi al ribasso (tutti voluti e appoggiati dalla sinistra) l’hanno via via indebolito fino a snaturarlo.

«Il 41bis non funziona», ha detto tranchant il procuratore di Napoli, Nicola Gratteri, presentando i risultati di una maxi indagine che, agli inizi di luglio, ha decapitato una delle famiglie più pericolose dell’Alleanza di Secondigliano, il cartello mafioso che domina il capoluogo. «Dobbiamo domandarci chi ha ridotto il 41bis in queste condizioni, con maglie così larghe. Ci sono state circolari, direttive e modifiche nel corso degli anni che lo hanno depotenziato». Giudizio condiviso dal capo della Squadra mobile partenopea, Giovanni Leuci, che ha sottolineato come i boss finiti sotto inchiesta, «nonostante fossero al carcere duro», avevano continuato «a organizzare il clan e investire» i soldi sporchi di droga e racket. Come abbiano fatto, però, è un mistero risolto soltanto a metà. È un po’ come negli spettacoli di magia, si sa che c’è il trucco ma non si riesce mai a capire in quale momento dello show dispiegherà i suoi stupefacenti effetti.

I padrini Edoardo Contini e Patrizio Bosti sono i «prestidigitatori della malavita», gli stregoni della criminalità organizzata. Ci sono, e fanno danni, eppure non si vedono.

Scrive il gip che ha firmato gli arresti, Antonino Santoro: «Le limitazioni del regime del 41bis a cui sono sottoposti entrambi sono di fatto eluse grazie alla interposizione dei familiari, veicolo di comunicazioni, ordini e direttive; e grazie anche alle illecite prestazioni, del tutto al di fuori dell’esercizio dell’attività propria del difensore». È il legale, «sfruttando la sua funzione istituzionale», che incontra il boss detenuto e allestisce il mercato delle informazioni. «È in quella sede», scrive ancora il giudice, «che il professionista si fa portavoce di notizie destinate a Contini, e riceve dal malavitoso indicazioni d’interesse per l’organizzazione criminale, da veicolare a chi in quel momento ha la responsabilità di gestire le attività illecite». E lo stesso vale per l’altro padrino della gang, Bosti, indicato dagli inquirenti come una figura «carismatica» che «non sembra aver subito alcun pregiudizio dal lungo periodo di carcerazione», che si protrae dal 2007.

Il capoclan, annotano gli investigatori, continua a «comandare» essendo «tenacemente al centro della scena criminale partenopea […] un personaggio dalla caratura […] di primissimo piano, in grado, ove scarcerato, di tornare immediatamente al comando del cartello da lui diretto». I «malacarne» parlano in maniera così criptica che le microspie nemmeno se ne accorgono. Usano un linguaggio muto che sfugge ai radar dell’antimafia.

Capita così che gli inquirenti si ritrovino tra le mani chat di WhatsApp, scambiate tra affiliati e parenti dei mammasantissima, in cui vengono discussi gli ordini impartiti dai due patriarchi attraverso linee di comunicazione invisibile. Sono piccole e grandi storie di malaffare o anche semplici problemi di gestione domestica come quella che toglie il sonno al figlio di Patrizio Bosti, Ettore, anche lui confinato in regime di carcere duro a Cuneo. Bosti jr, si legge nelle carte, ha necessità di impedire lo sfratto di una casetta, per problemi di morosità, perché - spiega - la moglie «ci deve mettere i vestiti del cambio di stagione miei, suoi e dei figli». Invece della cabina armadio, i camorristi usano direttamente un appartamento. Spese pazze che fanno infuriare il gran capo Patrizio che, in una intercettazione nella saletta colloqui, se la prende col rampollo che sta bruciando i risparmi. Resta solo un piccolo tesoretto di una decina di milioni - tra orologi preziosi, gioielli e contenti - custodito in un nascondiglio poi scoperto dalle forze dell’ordine all’indomani della maxi retata. Ma all’epoca Bosti è ancora convinto di poterne beneficiare. Tanto da preannunciare che «prima o poi si devono vendere perché stanno finendo i soldi». Nel clan è tempo di vacche magre. Ettore ha speso troppo, e male. Ha preferito la bella vita agli investimenti. «Stammi a sentire», sbotta il padre in una conversazione finita agli atti, «che ti pensavi... che per i soldi io tenevo la stampa?».

Per riprendere quota, il capoclan avrebbe dovuto conquistare la libertà. E c’era quasi visto che le porte della cella si sarebbero aperte in una decina di giorni se non fosse arrivata la nuova ordinanza di custodia cautelare, maturata anche grazie agli indizi emersi, a sorpresa, dall’abisso di un 41bis «bucherellato», ormai privo di qualsiasi funzione di deterrenza. Sostanzialmente malconcio, come ha detto Gratteri nell’indifferenza generale. Ed è strano. Tutta l’attenzione che, nei mesi scorsi, circondava il carcere duro, a cui era sottoposto l’anarchico Alfredo Cospito, è andata via via sfumando. Eppure artisti, intellettuali e politici progressisti, soprattutto di area Pd, parevano inorriditi dalla durezza (apparente) del regime di sorveglianza. Tutti schierati contro il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, che ne rivendicava invece la necessità e, finanche, l’indurimento. Tacciono ora sull’allarme del capo della Procura più grande d’Italia, condannato a morte dalla ’ndrangheta. E non tacevano quando, nel carcere di Sassari, emergevano i rapporti malati tra Cospito e i padrini mafiosi che lo invitavano a continuare la battaglia per l’abolizione del 41bis con lo sciopero della fame. Perché nessuno adesso ha raccolto l’allarme di Gratteri?

«Purtroppo una certa politica, giustificandosi con un presunto intento umanitario, è riuscita progressivamente ad affievolire il 41bis, non capendo che una cosa è garantire ai carcerati condizioni detentive adeguate e altra cosa è mantenere l’isolamento per i boss delle mafie», commenta con Panorama la senatrice leghista Tilde Minasi, componente della commissione parlamentare antimafia. «Questa è un’esigenza della società ed è uno degli strumenti più validi per contrastare lo strapotere dei clan, assieme alla confisca dei loro beni», prosegue. «Ed è, allora, altrettanto chiaro che noi non possiamo cedere su questo fronte, ma dobbiamo ripristinare il rigore originario di quel regime, senza che vi sia alcuna possibilità di bypassarlo. La nostra linea, d’altronde, è da sempre questa e continuerà a esserlo. Non possono esserci sconti, contatti, attenuazioni», conclude, «per chi si macchia di reati così gravi».

Bisogna far presto: il carcere duro sta collassando.

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