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Creo per provocare stupore

Seguendo la propria indole conviviale, l’architetto Adam D. Tihany è diventato il maggior rappresentante del design dell’ospitalità. Portano la sua firma gli hotel più belli al mondo, i più prestigiosi ristoranti internazionali e alcune linee da crociera. Il segreto del successo? L’«effetto wow!».

Solare, gentile, gioviale. Non è un caso che Adam D. Tihany, classe 1948, originario della Transilvania e newyorkese d’adozione, sia considerato uno dei più importanti designer di ospitalità, ovvero tra i migliori progettisti del settore al mondo, il cui lavoro è rappresentato tra gli altri dal The Beverly Hills Hotel, The Breakers, The Oberoi New Dehli e dal Four Seasons Dubai DIFC. Così come, non è un caso che Tihany sia una figura chiave nel settore della ristorazione e delle crociere: portano la sua firma i ristoranti di Paul Bocuse, di Pierre-Galmaire Gagnaire, il Le Cirque di Sirio Maccioni e navi come la Holland America Line, Costa, Cunard e la Seabourn ultra-luxury. Recentemente nominato Founding Executive Professor-in-residence presso la FIU (Florida International University), l’architetto che, va detto, si è laureato al Politecnico di Milano, tra i vari corsi ha lanciato il Master in Hospitality Design che naturalmente dirige.

Concorda che il design degli hotel contemporanei sia sempre più vicino allo stile residenziale?

L’«hospitality» oggi è ovunque: la gente viaggiando prende spunto dagli ambienti che vede per poi ispirarsi, se possibile, nell’abitazione. I turisti vanno in hotel per prendere idee su come arredare la casa o al ristorante per valutare quale servizio di piatti o posate comprare. Questa contaminazione tra «ospitalità» e «residenziale» è concreta perchè i luoghi pubblici sono accessibili a tutti, mentre le belle case, benchè pubblicate sulle riviste, rimangono private. Si possono vedere dei progetti innovativi di interior design pagando solo il prezzo della cena o di un aperitivo al bar. Inoltre, gli hotel di lusso sembrano essere sempre più vicini a un’estetica residenziale e i confini tra questi due mondi non sono più così chiari. La struttura del business è diversa ma l’estetica di design è diventata molto simile.

L’«effetto stupore» è forse la chiave del suo successo?

Risponderò con una citazione di uno dei miei maestri, il grafico newyorchese Milton Glaser: «Si possono avere tre possibili reazioni di fronte a un’opera: si, no e wow! Wow è l’obiettivo al quale mirare». L’effetto stupore nel design è molto importante perché àncora un posto nella memoria. I miei clienti mi chiedono spesso un luogo “Instagrammabile”, che in parole semplici significa disegnare un posto unico, irripetibile, memorabile. Tutti noi cerchiamo esperienze che ci tolgano il respiro. Lo hanno fatto nella storia i grandi architetti, da Antoni Gaudí a Frank Lloyd Wright o Frank Gehry, catturando l’immaginazione e sperimentando tecnologie sofisticate, a volte inimitabili.

Quanta importanza hanno i colori nell’elaborazione di un suo progetto di interior?

Io vedo il mondo a colori. La cromia ha un ruolo vitale per dare allo spazio un’identità. Non mi interessano le tendenze, il colore è un modo di entrare in contatto con l’umore delle persone, di farle muovere nello spazio, di creare una connessione emotiva. Potremmo anche in questo caso ricollegarci all’«effetto Wow». Il colore è una forma di espressione che comunica in maniera potente. E il mio sogno sarebbe stato di essere l’assistente del grande architetto Luis Barragán architetto messicano del XX secolo, fautore del concetto di «architettura emotiva», ndr).

Come stanno evolvendo i suoi progetti?

Ho disegnato spesso degli arredi su misura, dalle lampade alle sedie e ai tavoli. Alcuni di questi prodotti hanno trovato una evoluzione naturale nella produzione in serie. La compagnia che ho creato a gennaio 2024 con mia moglie Marnie, la Tihany Product Design, ha per l’appunto lo scopo di sviluppare dei prodotti per lo stile abitativo contemporaneo, basandosi sulla mia esperienza di oggetti progettati per durare più a lungo, per essere versatili. Sto lavorando con Christofle, Kartell, Giorgetti, per esempio, ma non vorrei ingrandirmi troppo. Mi piacerebbe rimanere in una dimensione di bottega creativa.

Com’è la sua casa?

Io e Marnie viviamo tra l’appartamento di Miami, nell’effervescente quartiere di Coconut Grove, dove passiamo l’inverno, e la nostra casa di famiglia che abbiamo da 30 anni in Westchester sul fiume Hudson, a 45 minuti da New York. Il mio cuore però è nel nostro piccolo pied-à-terre parigino in Quai de la Tournelle, di fianco al ristorante La Tour D’Argent. Lì saremo il 26 luglio, il giorno della cerimonia d’inaugurazione delle prossime Olimpiadi. Dalla nostra finestra si gode una splendida vista della Senna, l’«effetto Wow» è garantito! I veri parigini si sono già prenotati per l’occasione, poiché siamo gli unici ad avere una posizione così spettacolare. Le nostre residenze non sono uno showcase, semplicemente raccontano molto di noi. Si basano sugli stessi tre principi: la cucina perché ci piace cucinare e ricevere, l’arte perché collezioniamo opere di amici e artisti che conosciamo e la musica. Quest’ultima mi aiuta a concentrarmi quando lavoro: magari sono noioso, ma ascolto solo jazz e quasi sempre Miles Davis.

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