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Norvegia, un'economia rara



Oltre a essere già il più grande produttore europeo di idrocarburi, il Paese ha appena scoperto il maggior giacimento di materie prime decisive per la transizione green. Finora monopolio della Cina.


Quando si dice «piove sul bagnato»: la Norvegia, che già vanta grandi giacimenti di petrolio e di gas, ora si prepara a sfruttare un gigantesco deposito di terre rare, capace di soddisfare da solo il 10 per cento della domanda europea di questi preziosi materiali. A occuparsene sarà la società mineraria Rare Earths Norway di Oslo, fondata nel 2016 e proprietaria del Fen Carbonatite Complex, un’area circolare di circa tre chilometri di diametro a sud-ovest della capitale norvegese. Al suo interno si nasconderebbe un tesoro di 8,8 milioni di tonnellate di ossidi di terre rare, materie prime critiche necessarie per la produzione di tecnologie avanzate (come magneti, batterie, schermi, turbine eoliche, microchip) ed essenziali per realizzare gli obiettivi climatici dell’Europa. La Rare Earths Norway sta conducendo attività di perforazione e di test sul giacimento con l’obiettivo di avviare l’estrazione entro il 2025. La società si propone di sviluppare una filiera completa, dall’estrazione al trattamento e alla produzione di componenti finiti, con l’ambizione dichiarata di aiutare l’Europa a ridurre la dipendenza dalle importazioni di questi materiali cruciali, in particolare dalla Cina che attualmente domina il mercato.

Le terre rare, che in realtà non sono affatto rare, essendo più abbondanti per esempio del rame o dello zinco, vennero definite così perché è difficile trovarle in concentrazioni sfruttabili economicamente e per la complessità del processo di estrazione e separazione. Si tratta di un gruppo di 17 elementi della tavola periodica dai nomi bizzarri come erbio, gadolinio, lutezio o ittrio che possiedono proprietà chimiche e fisiche uniche: il neodimio e il disprosio sono fondamentali per le batterie agli ioni di litio che fanno funzionare smartphone e auto elettriche, il terbio e il disprosio servono a produrre i potenti magneti delle turbine eoliche e altre terre rare sono utilizzate in vari dispositivi medici come i laser per la chirurgia. Il problema è che la domanda di questi elementi è in fortissima crescita e l’Europa, pur avendo al proprio interno alcuni giacimenti, finora non li ha potuti sfruttare per ragioni ambientali o economiche ed è costretta a dipendere dalla Cina, che controlla circa il 60 per cento della produzione mondiale, e da altri Paesi come Australia e Stati Uniti. La Commissione europea ha identificato le terre rare come materia prima critica e ha stanziato fondi per sostenere progetti di ricerca e sviluppo nel settore. Oltre a quello in Norvegia, depositi di terre rare sono stati scoperti in Svezia (con una stima di due milioni di tonnellate), Finlandia, Portogallo, Spagna, Francia, Grecia, ma i progetti di estrazione sono ostacolati dalle preoccupazioni per l’impatto ecologico (con rischi di contaminazione delle acque e del suolo) e per i dubbi sulla loro fattibilità economica. E così sarà la Norvegia il primo Paese europeo a sfruttare il suo enorme giacimento di terre rare, che potrebbe generare un fatturato annuo di 1,5 miliardi di euro e dare lavoro a migliaia di persone.

Una nuova fonte di ricchezza che si aggiungerebbe a petrolio e gas naturale. Il Paese, governato da una coalizione di centrosinistra guidata dal laburista Jonas Gahr Støre, è infatti il più grande produttore di idrocarburi dell’Europa occidentale. Nel 2023, ha estratto circa 2,1 milioni di barili di greggio al giorno e 122 miliardi di metri cubi di gas naturale. La Norvegia è al 22esimo posto nel mondo per riserve provate di petrolio e in ottava posizione per quelle di gas naturale: il grosso dei giacimenti è nel Mare del Nord. Un patrimonio che frutta montagne di corone: nel 2023 il settore petrolifero e del gas ha rappresentato circa il 20 per cento del Pil norvegese e il 40 per cento delle entrate fiscali. Inoltre impiega direttamente circa 200 mila lavoratori su una popolazione complessiva di appena 5,5 milioni di abitanti. Il risultato è che il Pil pro-capite dello Stato scandinavo viaggia sui 106 mila dollari, tre volte quello italiano. E il bilancio dello Stato è in attivo.

Gente seria e pragmatica, i norvegesi non hanno sprecato i proventi dell’oro nero in progetti da mille e una notte, ma hanno mantenuto il loro tradizionale low profile investendo tutti quei soldi nel Government Pension Fund Global, che naturalmente è diventato il più grande fondo sovrano al mondo con un patrimonio di oltre 1.300 miliardi di dollari. Istituito nel 1996 e gestito dalla Norges Bank Investment Management, agenzia indipendente del governo, il fondo ha sostanzialmente tre obiettivi: garantire la prosperità futura della Norvegia quando le riserve di petrolio e gas si esauriranno; diversificare l’economia norvegese e proteggerla dalle fluttuazioni dei prezzi degli idrocarburi; contribuire allo sviluppo sostenibile del pianeta investendo in aziende che operano in modo responsabile. Tanto da aver annunciato lo scorso anno la progressiva riduzione dell’esposizione in imprese petrolifere e del gas.

Ambientalisti in casa propria ed esportatori di greggio all’estero, i norvegesi incarnano un paradosso. Mentre il Paese punta a raggiungere l’obiettivo di emissioni zero di gas serra entro il 2050, continua a esplorare nuovi giacimenti di petrolio e gas, anche nel Mare di Barents settentrionale. Quest’anno gli investimenti delle compagnie petrolifere che operano in Norvegia dovrebbero raggiungere il livello record di 21 miliardi. Non solo. Il 9 gennaio il Parlamento di Oslo ha concesso l’autorizzazione alle compagnie minerarie di setacciare 281 mila chilometri quadrati nei fondali dei mari del nord, un’area grande quasi quanto l’Italia, alla ricerca di materiali critici come rame, nichel e cobalto che si trovano in rocce grandi come un pugno, chiamate noduli polimetallici. Come ha sottolineato con disappunto il Wwf, la Norvegia è il primo al mondo ad aver approvato ufficialmente l’estrazione in profondità nelle acque dell’Artico. La decisione è stata criticata da scienziati e ambientalisti, che mettono in guardia da danni potenzialmente irreversibili agli ecosistemi marini. E a Strasburgo i deputati dei gruppi di sinistra hanno dato dell’irresponsabile alla Norvegia. Ma il Paese se ne fa un baffo: i suoi cittadini hanno respinto per due volte, con i referendum del 1972 e del 1994, l’ingresso nell’Unione europea, convinti che potesse ledere alcuni interessi strategici nell’economia e nell’energia. E proseguono per la loro strada, guidando auto elettriche e scavando miniere e pozzi petroliferi.

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