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Sentenze Onu contro Israele: il problema è che la comunità internazionale non le fa rispettare

La storia del conflitto israelo-palestinese è piena di risoluzioni Onu o sentenze di organismi internazionali che hanno censurato comportamenti e politiche adottati dalle autorità israeliane, indicando correzioni dettate dal diritto internazionale.

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Jack Khoury, assieme ad Amira Hass, è il giornalista israeliano che più è addentro alla realtà palestinese. La racconta da anni su Haaretz senza fare sconti né a Israele né alle varie fazioni politiche palestinesi. Nei suoi reportages e analisi, Khoury documenta i sentimenti prevalenti nella società palestinesi: rabbia, disincanto, dolore ma anche determinazione, orgoglio, volontà di resistere. Sentimenti che s’intrecciano quando i palestinesi fanno i conti con pareri, sentenze, risoluzioni internazionali

Una storia che si ripete

La storia del conflitto israelo-palestinese è piena di risoluzioni Onu o sentenze di organismi internazionali che hanno censurato comportamenti e politiche adottati dalle autorità israeliane, indicando correzioni dettate dal diritto internazionale. A mancare non sono stati i pronunciamenti. A mancare è sempre stata la determinazione della comunità internazionale a darne seguito, con atti sanzionatori nei confronti del destinatario (in questo caso Israele) che quelle risoluzione, anche quando avevano il timbro del massimo organismo decisionale dell’Onu, il Consiglio di Sicurezza) restavano lettera morta.

Una storia che rischia di ripetersi.

Scrive Khoury: “La sentenza consultiva della Corte Internazionale di Giustizia pubblicata venerdì, in cui si afferma che gli insediamenti israeliani in Cisgiordania violano i principi del diritto internazionale e che Israele deve porre fine alla sua presenza in quel territorio, non ha sorpreso nessun palestinese.

Nonostante la soddisfazione per la decisione del tribunale, non si sono sentiti applausi o festeggiamenti in Cisgiordania e certamente non nella devastata e sanguinante Striscia di Gaza. Nessuno ha cambiato la propria routine o ha saltato la siesta del venerdì pomeriggio (nemmeno i pochi rimasti a Gaza che hanno ancora un posto dove fare una pausa) quando il presidente della corte, il giudice libanese Nawaf Salam, ha letto la sentenza.

I palestinesi e la loro leadership sono stufi di tali decisioni e pareri legali, siano essi emessi dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, dal suo Consiglio di Sicurezza o da qualsiasi altra organizzazione. Se si considerasse il conflitto israelo-palestinese in base a quante decisioni dichiarative sono state prese a favore dei palestinesi, questo numero costituirebbe sicuramente un guinness dei primati.

Tuttavia, per i palestinesi, la prova è sempre stata l’effettiva attuazione di tali decisioni e lo stesso vale per la recente sentenza della Corte Internazionale di Giustizia.

I punti chiave del parere della Corte Internazionale di Giustizia

La presenza di Israele nei territori palestinesi occupati è considerata illegale.

Israele deve porre fine alla sua presenza nei territori occupati il prima possibile.

Israele deve cessare immediatamente l’espansione degli insediamenti ed evacuare tutti i coloni dalle aree occupate.

Israele deve risarcire i danni causati alla popolazione locale e legale dei territori palestinesi.

La comunità e le organizzazioni internazionali hanno il dovere di non riconoscere la presenza israeliana nei territori come legale e di non sostenerne il mantenimento.

Le Nazioni Unite dovrebbero valutare le azioni necessarie per porre fine alla presenza israeliana nei territori il prima possibile.

Per quanto riguarda Israele, non c’è motivo di aspettarsi che adotti e metta in pratica le raccomandazioni della sentenza. Al contrario. Le risposte dell’intero spettro politico sionista hanno dimostrato che nessuno è disposto ad ascoltare le conclusioni della corte o a studiarle. La legge approvata dalla Knesset la scorsa settimana, che ha raccolto il sostegno della maggioranza dei parlamentari e ha affermato l’opposizione dell’organo alla creazione di uno stato palestinese, parla da sola.

Nell’attuale clima politico, gli appelli all’annessione della Cisgiordania e all’espansione dell’impresa di insediamento – così come l’approvazione di nuovi avamposti illegali e l’acquisizione di colline e altri territori palestinesi – saranno percepiti come una risposta legittima alla sentenza della CIG dal mainstream israeliano e ancor più dalla base politica dei partiti della coalizione di Netanyahu.

Fortunatamente, il Primo ministro Benjamin Netanyahu si recherà in visita negli Stati Uniti questa settimana, altrimenti si sarebbe affrettato ad assumere un ruolo centrale nella celebrazione.

Forse è per questo motivo che la decisione della Corte non è rivolta tanto a Israele, quanto agli organismi internazionali che dovrebbero attuare le sue conclusioni: l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il Consiglio di Sicurezza e tutti i paesi che rispettano i principi del diritto internazionale e la posizione consultiva della massima corte mondiale.

Il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha accolto con favore la decisione del tribunale, definendola una “vittoria della giustizia”. Abbas ha esortato la comunità internazionale “a chiedere che Israele, in quanto potenza occupante, ponga fine all’occupazione e si ritiri senza condizioni”.

Alla sua età avanzata, Abbas capisce perfettamente che non ha senso rivolgersi a Israele e ai suoi cittadini. È una causa persa quando almeno la metà dei ministri del governo lo considera “un sostenitore del terrorismo” e cerca di smantellare l’Autorità Palestinese.

Come previsto, tutte le fazioni della leadership palestinese, dalle organizzazioni per i diritti umani a Hamas, hanno ribadito la richiesta di attuare le conclusioni della sentenza attraverso sanzioni efficaci nei confronti delle aziende e dei paesi che continuano a collaborare con l’occupazione israeliana. Soprattutto, hanno chiesto un calendario concreto per l’attuazione di tali azioni, in modo da non permettere che vengano rimandate all’infinito.

Il tempo è fondamentale. I palestinesi capiscono che se c’è ancora una possibilità, anche minima, di fare progressi su questo fronte, ciò deve avvenire nei prossimi mesi, prima che l’effetto della guerra a Gaza sulla comunità internazionale svanisca.

I palestinesi sanno anche che è meglio fare passi avanti prima delle elezioni presidenziali americane di novembre, quando i sondaggi indicano che l’ex presidente Donald Trump potrebbe tornare alla Casa Bianca. Per Trump, qualsiasi concezione del diritto – e in particolare del diritto internazionale – non è altro che uno scherzo.

Fino a novembre, e a margine dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a settembre, i palestinesi potrebbero ancora avere la possibilità di spingere per ottenere misure che possano in qualche modo sfidare Israele, compreso lo schieramento politico israeliano che si considera un’alternativa a Netanyahu ed è pronto a considerare un accordo politico.

Tuttavia, la sentenza del tribunale rimarrà un documento legale privo di significato se tutte le parti continueranno a procrastinare – esattamente come il destino del suo predecessore due decenni fa riguardo alla recinzione di separazione che Israele aveva eretto in Cisgiordania.

Senza misure attuabili, la sentenza della corte rimarrà un’ulteriore prova del fatto che termini come giustizia, diritto internazionale e decisioni della comunità internazionale sono questioni selettive che si applicano solo ad alcuni paesi e vengono ignorate da altri. Israele, che si vanta di essere una democrazia ma allo stesso tempo occupa, controlla e calpesta un altro popolo senza alcun ritegno, continuerà a non rispettare tali decisioni legali, anche se provengono dalla Corte Internazionale di Giustizia”, conclude Khoury.

Una svolta da imporre

Così un editoriale di Haaretz: “Il parere emesso venerdì dalla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia, in cui si afferma che gli insediamenti israeliani in Cisgiordania violano il diritto internazionale e che Israele deve porre fine all’occupazione in Cisgiordania e a Gerusalemme Est il prima possibile, non ha rivelato agli israeliani nulla che non sapessero già.

Il parere manda in frantumi la menzogna secondo cui l’occupazione è solo temporanea e destinata esclusivamente a scopi di sicurezza. Questa è la bugia che gli israeliani si sono raccontati durante decenni di occupazione, mentre si appropriavano di sempre più terre palestinesi, espropriavano i palestinesi delle loro terre e vi costruivano insediamenti, il tutto con il patrocinio dei governi israeliani che si sono succeduti, attraverso l’agenzia dei coloni e con l’appoggio delle Forze di Difesa Israeliane e della magistratura. L’opinione fa esplodere questa bolla di menzogne e considera vari atti del governo israeliano come annessioni del territorio.

Tuttavia, non c’è nemmeno un briciolo di speranza che, dopo 57 anni, questo parere possa spingere lo Stato di Israele a ravvedersi e a rispettare le richieste di evacuazione degli insediamenti, a porre fine all’occupazione e al controllo militare sui palestinesi e a risarcire anche loro. Si tratta di una mera illusione, come si può dedurre dalle preoccupanti reazioni in Israele al parere. Tutte, da quelle del primo ministro e dei suoi colleghi di gabinetto fino all’opposizione alla Knesset di Benny Gantz e Yair Lapid, possono essere collocate lungo lo spettro del sionismo religioso.

Dopotutto, che differenza c’è tra i richiami dell’estrema destra alla “sovranità ora”, i balbettii di Benjamin Netanyahu sull’impossibilità di negare “il diritto legale degli israeliani a vivere nelle loro comunità nella nostra casa ancestrale”, le sciocchezze di Gantz sulla “giudiziarizzazione di un conflitto politico-diplomatico” e l’oltraggiosa predica moralista di Lapid, che ha dichiarato l’opinione “distaccata, unilaterale e contaminata dall’antisemitismo e priva di una comprensione della realtà sul campo”?

Ma non si deve dedurre che il parere non avrà conseguenze politiche ed economiche che potrebbero indurre Israele – a causa dei costi che sarà costretto a pagare – a ripensare la sua rotta riguardo all’occupazione e all’impresa degli insediamenti. Non si tratta solo di sanzioni ai coloni violenti o alle organizzazioni affiliate agli insediamenti.

Il punto più importante del parere, da un punto di vista pratico, è l’obbligo che impone alle organizzazioni internazionali e agli Stati membri delle Nazioni Unite di non riconoscere come legale o contribuire a mantenere la situazione derivante dalla presenza illegale di Israele nei territori. Gli Stati membri sono in effetti obbligati, sulla scia del parere, a condurre una revisione preliminare di qualsiasi interazione con Israele, sia nei territori che in Israele, per verificare che non contribuisca alla presenza di Israele nei territori.

L’ipotesi di lavoro di Israele – che il mondo continuerà a ignorare l’occupazione – è andata in frantumi negli ultimi mesi. Se Israele continuasse a ignorare ciò che il mondo gli dice, potrebbe svegliarsi in una realtà in cui viene boicottato e ostracizzato come il Sudafrica dell’epoca dell’apartheid”.

La conclusione a cui giunge Haaretz va presa come monito rivolto all’opinione pubblica israeliana. L’ennesimo lanciato dall’ultimo bastione della stampa libera, indipendente, coraggiosa, dello Stato ebraico. Ma Israele, ed è la storia a dirlo, dalla sua nascita come Stato focolaio nazionale del popolo ebraico, ad oggi (76 anni dopo) dalla comunità internazionale, in primis dagli Stati Uniti, ha ricevuto tutto sostegno – militare, finanziario, diplomatico – e niente, o quasi, misure sanzionatorie che fossero a sostegno di risoluzioni pure approvate dall’America in Consiglio di Sicurezza. Tante parole, anche dure, ma nessun fatto sostanziale. E così la colonizzazione della Cisgiordania è andata avanti senza soluzione di continuità, il regime di apartheid è stato di fatto instaurato in Cisgiordania, la pulizia etnica della popolazione araba di Gerusalemme Est si consuma quotidianamente da anni. E Israele continua a farsi beffe del diritto internazionale. Ciò ha generato non solo nelle leadership politiche ma nel senso comune del Paese, che Israele è al di sopra della legalità internazionale. Chi oserebbe sanzionare le vittime del più grande crimine nella storia dell’umanità (l’Olocausto)? L’Europa che di quel crimine fu la culla? Un ricatto morale che funziona ancora. E se provi a eccepire, ecco pronta l’accusa più infamante, sanguinosa: essere un antisemita. Il disincanto palestinese, a ben vedere, nasce da qui. Da quell’amara verità enunciato dal più grande intellettuale palestinese, scomparso da tempo: Edward Said. La tragedia dei palestinesi, ebbe a scrivere, è di “essere vittime delle vittime”.  E di fronte al perenne risarcimento della Storia, cosa vuoi che sia lasciar cadere nel dimenticatoio anche il parere della CIG?

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