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Non esistono razze umane, ma gradienti genici che variano. Eccone un esempio

Abbiamo visto in un post precedente che dal punto di vista genetico i gruppi umani differiscono molto di più al loro interno che tra loro; ciononostante alcuni gruppi sono tra loro più simili di altri: maggiore distanza geografica si associa, in genere, a minore scambio di geni attraverso matrimoni misti, e maggiore differenza genetica. Possiamo isolare gruppi geograficamente distanti e considerarli razze diverse? Cioè possiamo limitare il nostro confronto, ad esempio a italiani e cinesi?

Ancora una volta no, e non solo per la ragione, già considerata, della grande variabilità genetica interna ai gruppi, ma anche perché i gruppi vicini sfumano gli uni negli altri creando un gradiente di variabilità genetica. Ad esempio, e per intenderci, mentre non esiste nessuna razza canina stabile che sia intermedia tra i dobermann e i basset hounds, esistono numerosissimi gruppi intermedi tra italiani e cinesi.

Un esempio classico ci aiuterà a chiarire questo concetto. La fosfatasi alcalina placentare esiste in tre varianti geniche maggiori denominate S, I ed F. La frequenza della variante F segue un evidente gradiente geografico: 27% negli inglesi, 26% negli italiani, 22% negli indiani, 8% nei tailandesi, 3% nei giapponesi. Le varianti S ed I seguono gradienti inversi: crescono percentualmente andando da ovest verso est. Non ci sono però chiari confini “razziali” tra occidentali e orientali.

Per citare una analogia già fatta in altri contesti: la variabilità genetica dell’umanità è fatta come una rampa che noi cerchiamo di descrivere come se fosse una scala, ogni gradino una razza, e non solo: pretendiamo che la scala abbia pochi gradini: caucasici, africani, orientali, aborigeni australiani e poco più. Poiché la pendenza del gradiente non è costante ma varia, in alcune regioni geografiche il gradino può essere una approssimazione migliore che in altre; ma è pur sempre una approssimazione.

La migliore prova dell’arbitrarietà delle classificazioni razziali sta nel fatto non c’è mai stato tra gli antropologi nessun accordo su quante razze umane esistono e su come debbono essere precisamente identificate; Cavalli Sforza, uno dei massimi studiosi della variabilità umana nel libro “Geni, popoli e lingue” scrive: “gli antropologi sono giunti a stime molto diverse sul numero delle razze da 3 ad oltre 100”; e ancora: “poiché la divergenza genetica [tra popolazioni distanti] aumenta in maniera continua, è ovvio che ogni definizione di soglie precise è completamente arbitraria“.

In alcuni contesti il tentativo di classificare l’umanità in gruppi e razze può avere un limitato valore pratico: ad esempio nella medicina perché alcuni gruppi presentano maggiore incidenza di alcune malattie o rispondono diversamente ad alcuni farmaci. Ma questo uso della classificazione razziale riflette esclusivamente la nostra ignoranza nei meccanismi biochimici alla base delle differenze osservate, che dipendono dalla costituzione genetica dei singoli individui: nei casi in cui noi sappiamo esattamente quali sono le varianti geniche implicate nella malattia o nella risposta al farmaco, possiamo identificarle in ogni singolo paziente e stabilire caso per caso la diagnosi corretta e la terapia migliore, prescindendo completamente dal gruppo di appartenenza.

L’uso del concetto di razza, con tutte le sue imprecisioni, è un cattivo sostituto perché ha solo un valore statistico: ci dice se è più o meno probabile che quel paziente abbia quella malattia o risponda a quella terapia. Per spiegarci di nuovo attraverso un esempio: la malattia di Tay-Sachs è un grave difetto metabolico ereditario a carico del gene dell’enzima esosoaminidasi A. E’ rarissima (circa 1 caso ogni milione di nati) eccetto che tra gli Ebrei ashkenazi (1 caso ogni 4.000 nati). Certamente se il medico sospetta la malattia in un neonato, il fatto che i genitori siano Ebrei ashkenazi può costituire una “indicazione” in senso probabilistico; ma il valore di questa indicazione che prima del sequenziamento genico era grande, è oggi relativo: oggi il medico chiederà l’analisi del gene dell’esosoaminidasi A e stabilirà la diagnosi a prescindere dall’appartenenza etnica del neonato.

LE RAZZE UMANE NON ESISTONO – Leggi anche: Puntata IPuntata IIPuntata III

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