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Il dopo Biden pieno di incertezze per i democratici



Joe Biden era o non era in grado di guidare gli Stati Uniti per altri quattro anni? Non lo sapremo mai. Il presidente in carica ha infatti stravolto le elezioni americane (e il partito democratico) annunciando il suo (tardivo) ritiro dalla corsa per la rielezione. Dopo aver insistito fino all’ultimo sul fatto che sarebbe rimasto e nonostante abbia resistito ferocemente per settimane, infine l’ottuagenario Biden si è ritrovato isolato contro l’intero gruppo dirigente dem, che gli ha fatto terra bruciata intorno e lo ha costretto a rinunciare al ruolo che naturalmente gli spettava.La ragione? Un preteso e a quanto pare necessario rinnovamento dell’America, che «deve iniziare ora» e che per i democratici deve essere rappresentato «da una figura giovane e vigorosa». Dunque, non precisamente l’età lo ha condannato, ma i dirigenti democratici stessi, spaventati dalla sua pessima performance nel dibattito elettorale contro Donald Trump, dove il presidente è sembrato smarrito e in decadimento cognitivo con possibili compromissioni delle funzioni fisiologiche. Non una cartella clinica lo ha inchiodato, ma la sua immagine danneggiata di leader: un fatto che oggigiorno viene considerato come e forse più grave del contenuto e della sostanza delle decisioni esecutive di un capo di Stato.

Un presidente con crescenti difficoltà di salute, la cui comunicazione non verbale può cagionare seri danni all’immagine del Paese, è motivo sufficiente per portare a conseguenze molto negative per l’America. Anche se il danno d’immagine per i democratici c’è stato comunque, e potrebbe essere irreparabile, specie in confronto all’episodio miracoloso dello scampato assassinio di Donald Trump, Per i Democratici averlo defenestrato così tardivamente è un rischio grandissimo – non era mai successo nella storia americana – soprattutto perché questa scelta forzata non garantisce alternative sicure. Considerato che la posta in gioco è la presidenza, solo il voto di novembre ci dirà se l’intuizione degli Obama e dei Clinton, supportati dall’autorevole New York Times, che ha lanciato la campagna anti-Biden, si è rivelata corretta. Vale qui la pena ricordare che, ancora a poche ore dall’affermazione di Donald Trump nel 2016, proprio il New York Times dava la vittoria di Hillary Clinton sicura al 90%. E che già altre volte il più ascoltato quotidiano d’America (e del mondo) ha preso delle cantonate. Ma tant’è.

Se guardiamo al passato e ai parallelismi della storia, quando Lindon Johnson annunciò che non si sarebbe candidato per un secondo mandato nel 1968, si era ancora a marzo: anche la sua rinuncia diede il via a una caotica catena di eventi, che si concluse con la scelta del vicepresidente Hubert Humphrey, il quale però perse contro il repubblicano Richard Nixon. Qualche tempo prima, nel marzo del 1952, anche il presidente Harry S. Truman, altro democratico anziano e malato, aveva scelto di non ricandidarsi. E anche in quel caso il candidato democratico suo sostituto, Adlai Stevenson, perse contro il repubblicano Dwight Eisenhower. Sarà così ancora una volta? Di certo, al momento sappiamo solo che dovremo aspettare altri tre mesi prima di tirare le somme di questo folle luglio americano, e analizzare le ragioni profonde che hanno spinto i democratici a questo U turn, inversione a U, come dicono gli inglesi.

Intanto, l’unico esercizio utile è analizzare se e perché Biden non è più in grado di essere all’altezza del compito che tuttavia ancora svolge (e svolgerà fino al 20 gennaio 2025). E per farlo dobbiamo guardare ai media che, guidati dal Nyt (a sua volta imbeccato da Barack Obama, ancora oggi deus ex machina del partito dell’Asinello), hanno aperto il fuoco – amico – contro l’attuale inquilino della Casa Bianca.

Secondo il settimanale The Economist - la rivista britannica che ha pubblicato in copertina la foto di un deambulatore con il simbolo del presidente degli Usa (una scelta molto sleale e politicamente scorretta, specie in tempi di #Metoo e bodyshaming) – la ragione è da ricercare soprattutto nella mancanza di sincerità da parte del presidente: «È stata un’agonia vedere un uomo anziano e confuso lottare per ricordare parole e fatti. La sua incapacità di sostenere un’argomentazione contro un avversario debole è stata scoraggiante. Ma l’operazione della sua campagna per negare ciò che decine di milioni di americani hanno visto con i propri occhi è più tossica di entrambe, perché la sua disonestà provoca disprezzo» accusa il magazine, puntando dunque sulla menzogna e sulla disonestà intellettuale di un uomo che - si potrebbe speculare sulla base delle accuse anglosassoni - è troppo attaccato al potere.

Ovviamente, Biden è esente da colpe per le sue capacità in declino, «ma non per la sua insistenza, supportata dalla sua famiglia, dai suoi alti collaboratori e dall’élite democratica, che sia ancora in grado di svolgere il lavoro più difficile del mondo. La sua affermazione che questa elezione sia tra giusto e sbagliato è rovinata dal fatto che l’esistenza della sua campagna dipende ora da una menzogna». Ecco la pietra tombale secondo l’Economist, e dunque anche per il Times e, soprattutto, secondo i finanziatori della campagna democratica, che difatti hanno congelato seduta stante i fondi per la rielezione del presidente. La menzogna è una colpa grave, mentire ai cittadini un fatto indegno di un leader.

Il presidente però non ci sta a questa narrazione. «Isolato, frustrato e arrabbiato» lo descrivono oggi gli amici intimi, che lo hanno raggiunto nella sua magione estiva sulla costa del Delaware. «Si è sentito tradito dagli alleati che gli hanno voltato le spalle nel momento del bisogno» dicono. Solo una manciata di fidati consiglieri e la first lady Jill Biden gli sono rimasti al fianco. Mentre persino Ocasio Cortez, la «pasionaria socialista» che insieme a Bernie Sanders ha spostato il partito di Biden all’estrema sinistra, dopo averlo sostenuto fino all’ultimo ha virato sulla vicepresidente Kamala Harris, che adesso è la candidata in pectore dei democratici. Oppure no?

Già, perché nell’ora più buia per Joe Biden, al mancato rispetto che lui ha sentito nei propri confronti dopo una vita dedicata all’amministrazione, si aggiunge un giallo: sarebbe stato lo stesso presidente a pretendere che Harris prenda il suo posto, ma non sarebbe affatto lei la persona individuata per sostituirlo da parte di chi lo ha pugnalato alle spalle. Gli Obama, non meno dei Clinton e della potente ex speaker della Camera Nancy Pelosi, sono sì gli artefici del «cesaricidio» ma, insieme a diversi governatori democratici di spicco, come Gavin Newsom della California e Josh Shapiro della Pennsylvania (entrambi considerati possibili candidati alla presidenza), lavorano per un’altra soluzione prima del Congresso.

Dunque, l’America politica è nel caos: i repubblicani hanno rischiato di avere un ex presidente e candidato assassinato da un pazzo criminale, mentre i democratici hanno commesso un «assassinio politico» a sangue freddo. Con la conseguenza che adesso Donald Trump è favoritissimo per la rielezione, mentre i dem precipitano nei sondaggi e nell’incertezza sul sostituto. Perché questo «suicidio» da parte del partito dell’Asinello? Si sono accorti solo adesso che Joe Biden non poteva più governare? Harris è in grado di competere con il «miracolato» Trump? E ancora: la scelta della prima donna nera americana che corre per la presidenza è davvero il simbolo del preteso rinnovamento che hanno in mente i democratici? Difficile dirlo.

La candidatura della vicepresidente, infatti, non priverebbe Donald Trump dei suoi argomenti più forti usati contro Biden: la responsabilità per l’inflazione, l’immigrazione, la discutibile gestione della guerra in Ucraina e Israele, e infine la presunta «caccia alle streghe» che ha portato alla incriminazione del tycoon. Harris inoltre ha già corso per una carica nazionale - la candidatura alle presidenziali democratiche del 2020 - ed è inciampata malamente. Una serie di interviste non riuscite, insieme a una mancanza di una visione chiaramente definita e una campagna mal gestita, l’hanno portata a ritirarsi prima ancora delle primarie. Mentre, una volta scelta come vice di Biden, non ha brillato per capacità né si è guadagnata il favore del popolo (come invece è accaduto per il presidente in carica, già vice di Obama e unanimemente riconosciuto come affidabile e determinato a servire al meglio il suo Paese). In fin dei conti, l’economia americana e i posti di lavoro non eran stati messi in pericolo da Biden, né la politica interna ha conosciuto sotto di lui sconvolgimenti gravi e quella estera (eccettuato il ritiro dall’Afghanistan) è parsa la solita di chi lo aveva preceduto, né il presidente ha abusato del proprio ruolo o era stato coinvolto direttamente in scandali.

Lo stesso non può dirsi di Donald Trump, che paradossalmente i democratici stanno spingendo (sia pur in maniera involontaria) di nuovo verso il 1600 di Pennsylvania Avenue, con il loro comportamento. Un comportamento «suicida», se visto dall’Europa. Al punto che qualche buontempone si è spinto a dire che «nemmeno il Partito Democratico italiano avrebbe saputo fare peggio di così». Agli elettori americani l’ardua sentenza.






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