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Il disordine tra i Democratici e la strategia del caos nazionale

L’elettorato statunitense è in preda ai capogiri, scosso da uno choc dopo l’altro, mentre continua la lunga telenovela delle elezioni presidenziali. Dal “dibattito” del 27 giugno, in cui Biden ha trascorso la prima ora annaspando e mostrandosi in uno stato fragile e quasi catatonico, si sono moltiplicate le richieste di dimissioni da parte dei leader di entrambi i partiti, dei media nazionali e, soprattutto, dei miliardari finanziatori del Partito Democratico.
Dopo quella che è sembrata una decisa – o ostinata – resistenza da parte dell’attuale inquilino della Casa Bianca, il 21 luglio Biden ha rilasciato una dichiarazione scritta: “Credo che sia nell’interesse del mio partito e del Paese che io mi dimetta e che mi concentri esclusivamente sull’adempimento dei miei doveri di Presidente per il resto del mandato”. A quel punto è stato acclamato come un eroe dai colleghi democratici che solo poche ore prima chiedevano a gran voce che si ritirasse dalla corsa per salvare la nazione da un’inevitabile vittoria di Trump.
Il suo avversario, l’ex presidente Donald Trump, che il 30 maggio è stato condannato da una giuria di Manhattan per 34 reati e il 13 luglio ha rischiato di essere assassinato durante un comizio elettorale, ha risposto con la sua caratteristica aggressività, affermando che Biden “non è adatto a candidarsi… [e] non è certamente adatto a governare”. A questa affermazione hanno fatto eco molti repubblicani, che sostengono che, se Biden fosse veramente interessato a ciò che è bene per il Paese, dovrebbe dimettersi dalla Presidenza.
Con le elezioni tra poco più di cento giorni, c’è tutto il tempo per altri imprevedibili scossoni politici. Il primo nodo da sciogliere è se Kamala Harris, vicepresidente di Biden, debba prenderne il posto nella lista. Sebbene sia stata appoggiata da Biden, dai Clinton e da altri democratici, molti ricordano il crollo nei sondaggi nel 2020, che la spinse ad abbandonare la corsa prima delle primarie. I resoconti più garbati parlavano di una campagna “fiaccata”, in quanto aveva fatto ben poco per ispirare fiducia agli elettori. Poco è cambiato, dopo quattro anni senza risultati degni di nota come vicepresidente. La Harris è stata anche accusata di aver nascosto l’evidente deterioramento della salute di Biden, rimandandone l’inevitabile rimozione fino a questo momento.
C’è anche il timore che, se la candidata venisse consacrata dai capi del partito, invece di essere scelta in una competizione aperta, la pretesa di essere “democratica” verrebbe messa in ridicolo. Inoltre, una campagna controversa e compressa potrebbe approfondire le spaccature all’interno del partito su temi come il sostegno alla guerra per procura contro la Russia, la pulizia etnica israeliana in Palestina, nonché l’incapacità di Biden di proteggere il confine, uno dei principali temi sostenuti da Trump nella campagna elettorale.
C’è infine il fattore Kennedy. Robert F. Kennedy Jr., il figlio di Bob, ha scelto di correre come indipendente dopo essere stato ostracizzato dal partito democratico. Nei sondaggi viene accreditato con un 15% dei voti, che andrebbe a togliere ai democratici, favorendo quindi la vittoria di Trump. Dopo la rinuncia di Biden, RFK è tornato a chiedere la nomina democratica, cosa tecnicamente fattibile in una Convention “aperta”, ma politicamente difficile.

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