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La danza come lettura del mondo



Tra ballerini e coreografi, sono 160 gli artisti internazionali che vanno in scena fino al 3 agosto alla Biennale Danza 2024 di Venezia. We Humans, Noi umani è il titolo scelto dal direttore artistico Wayne McGregor per questa edizione ricca di spunti di riflessione sul senso della coesistenza tra gli uomini.

La danza contemporanea ha qualcosa da dire. In questo momento storico, forse, molto di più di certa arte e di tanta musica.

Lontana dagli appetiti mercantili e dalle mode effimere, si nutre di studio assiduo, di ricerche approfondite e di sperimentazione per capire fin dove l’intelligenza del corpo può trasformarsi in linguaggio universale, in comunicazione esplicita, spesso in dialogo con la fotografia, le altre arti visive, la tecnologia.

«La coreografia è da considerarsi come un discorso critico in continuo movimento, in cui l’atto creativo non è mai disgiunto dalla riflessione. Anche quella politica» conferma infatti la danzatrice e coreografa ital-svedese Cristina Caprioli, Leone d’oro alla carriera della Biennale Danza 2024 di Venezia, riconoscimento di una delle più autorevoli istituzioni del settore a livello internazionale.

Oltre 160 artisti per oltre 80 appuntamenti con 21 prime (sette assolute, due europee, 12 italiane) e un totale di 10 produzioni e coproduzioni, la Biennale Danza 2024 (fino al 3 agosto, info: www.labiennale.org/it/danza/) ha come titolo We Humans, Noi umani, ovvero noi esseri pensanti che attraverso la mente agiamo, ci esprimiamo, ci relazioniamo. In maniera sempre più complessa, col passare del tempo, e in modo sempre meno naturale e spontaneo perché evoluzioni e tecnologie impongono modalità nuove e differenti, come spiega Wayne McGregor, il geniale coreografo inglese, (da poco nominato baronetto da Sua Maestà Re Carlo III) da quattro anni direttore artistico della Biennale, riconfermato per il biennio 2025-2026, nonché ideatore del tema di questa edizione.

«Per migliaia di anni, noi umani abbiamo comunicato muovendo i nostri corpi a ritmo, insieme. Abbiamo implorato gli dei perché ci dessero il sole e la pioggia, abbiamo mostrato la forza bruta in temibili unisoni» racconta il coreografo: «Abbiamo celebrato le gioie e i dolori condivisi su questo nostro mondo e ci siamo lanciati verso l’estasi, liberandoci dal dolore della morte. Tuttavia, non c’è più bisogno che lo facciamo: disponiamo di molti modi, artificiali e digitali, per comunicare i nostri desideri, le nostre riflessioni, le nostre emozioni e intenzioni. Però la danza è sempre dentro di noi, perché noi umani siamo movimento».

Tre i titoli di cui è protagonista il Leone d’Oro Cristina Caprioli, Flat Haze, Silver e Deadlock, quest’ultimo per la prima volta in Italia, è un saggio su una danzatrice fantasma, persa tra dimensione reale e quella immaginata il cui corpo, moltiplicato sullo schermo, viaggia attraverso i due mondi come se profondità, peso, e confini non esistessero. Due, invece, sono le opere presentate dal Leone d’Argento Trajal Harrell, il coreografo di culto tra i giovani è in scena con l’assolo Sister or He Buried the Body, e Tambourines. La prima è una performance installazione che coniuga un omaggio a Tatsumi Hijikata, uno dei padri fondatori della danza butoh con citazioni del lavoro dell’antropologa e coreografa afroamericana Katherine Dunham, amica tra l’altro di Hijikata, e con elementi del vougueing, la danza nata nei locali gay frequentati da latinoamericani e da afroamericani nei primi anni Sessanta.

Da non perdere poi, secondo critici ed esperti, la prima opera teatrale in otto anni dell’artista giapponese Shiro Takatani: Tangent. Takatani, cofondatore del collettivo artistico Dumb Type, nella sua lunga carriera, iniziata nel 1984, durante la quale ha lavorato con artisti come Ryüichi Sakamoto e Ryoji Ikeda, ha realizzato installazioni e spettacoli di teatro e danza, sperimentando diversi mezzi espressivi. Lo stesso ha fatto con Tangent, frutto dell’interrelazione fra arte, scienza e tecnologia, trascendendo così il confine fra le arti.

Simile approccio è adottato anche dalla regista, artista visiva e danzatrice argentina Melisa Zulberti, classe 1989, esponente di una nuova generazione di coreografi che la Biennale sostiene con un programma pluriennale di bandi. Suo il progetto interdisciplinare Posguerra, un lavoro incentrato sul concetto di tempo circolare. Un circolo che ci riporta perennemente al punto di partenza.

Restando nell’ambito degli emergenti, There Was Still Time è lo spettacolo con cui Chiara de’ Nobili e Alexander Miller, in arte Miller de Nobili, si affermano fra i giovani italiani più interessanti della loro generazione, vincendo il bando nazionale per una nuova coreografia della Biennale Danza. Il loro lavoro è una riflessione sulla crisi climatica, sulle disuguaglianze e sulla violenza di tutte le guerre. Esplora i temi della vulnerabilità, della tragedia di vivere e del successo Benji Reid, pluripremiato fotografo e pioniere del teatro hip hop, che in Find Your Eyes mescola immagini afro-futuristiche con racconti di vita in uno spettacolo in evoluzione che coinvolge il pubblico, facendo coesistere fotografia, coreografia, teatro in ciò che Reid stesso ha battezzato choreo-photolist.

Si potrà pensare che la danza contemporanea non sia di facile fruizione, non è come andare al cinema. Ma il punto, forse, non è la comprensione, piuttosto lasciarsi coinvolgere per stimolare immaginazione e sensibilità. Perché come dice il direttore McGregor: «Questi artisti sfruttano le capacità dell’essere umano per superarne il potenziale, mentre ci ricordano con calma, grazia e urgenza che ciò che Noi Esseri Umani condividiamo è ben più grande di tutto ciò che ci divide».

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