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Non chiamateli artisti ma sound influencer: per bassi scopi servono bassi contenuti

Non chiamateli artisti ma sound influencer: per bassi scopi servono bassi contenuti

Divenuta oramai, per parte considerevole della sua produzione, un mero veicolo pubblicitario, l’attuale musica mainstream ha quasi cancellato il ricordo di un periodo, abbastanza lungo (quello dell’intera industria musicale fino al suo definitivo crepuscolo), in cui la musica di ampio consumo, salvo rare eccezioni, non aveva niente a che fare coi brand, e i testi […]

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Divenuta oramai, per parte considerevole della sua produzione, un mero veicolo pubblicitario, l’attuale musica mainstream ha quasi cancellato il ricordo di un periodo, abbastanza lungo (quello dell’intera industria musicale fino al suo definitivo crepuscolo), in cui la musica di ampio consumo, salvo rare eccezioni, non aveva niente a che fare coi brand, e i testi non servivano a promuovere questo o quel marchio, questa o quella casa vestiaria, questo o quell’orologio.

Oggi, parte importante della musica di ampia fruizione, la musica che conta e che fa gli ascolti, è invece nelle mani dei brand, senza i quali del resto non potrebbe neanche esistere: la scomparsa dei supporti fisici ha permesso l’ingresso nel settore discografico di aziende e multinazionali varie con la conseguente lottizzazione della produzione: Adidas, Nike, Rolex, Coca Cola, Moncler, Michael Kors, Rayban, Tiffany, Chanel e Yves Saint Laurent sono solo alcune tra le decine e decine di multinazionali che trovano veicolazione nei testi e nei videoclip musicali. Pubblicità occulta, per la precisione travestita, che assicura la sopravvivenza di un settore gravemente colpito dall’avvento del digitale e di internet.

A decine, centinaia i licenziamenti nelle filiali delle major di tutto il mondo, e ciò che un tempo sarebbe stato impensabile, che la musica divenisse sistematicamente, serialmente un spazio pubblicitario occulto, oggi è a tutti gli effetti una realtà. Basta del resto prestare orecchio e notare l’assoluta inconsistenza, sul piano narrativo, linguistico, contenutistico, dei testi di buona parte dell’odierna produzione per comprendere quanto la funzione del brano sia sempre meno quella di raccontare una storia, esprimere un concetto, veicolare uno stato d’animo, ecc., bensì, sempre più, quella ben meno nobile di promuovere questo o quel marchio e indirizzare così i consumi di milioni di giovani e giovanissimi.

La pubblicità, un tempo relegata in appositi spazi segnalati per legge, appropriandosi di uno dei mezzi più incisivi mai sperimentati dall’essere umano ha così raggiunto una capillarità e una una penetrazione mai viste prima: l’epoca d’oro dei brand, ed è appena iniziata. Il performer dal canto suo non è più un musicista, nel senso che non lo è neanche a livello dilettantistico, bensì, per dirla bene, un sound influencer, per dirla meglio un venditore musicale. Ecco perché anche qui, come già per le certificazioni discografiche, urge la necessità di un nuovo comparto linguistico, lessicale, di una nomenclatura nuova di zecca atta a definire un fenomeno del tutto inedito e ben distinto dalla produzione musicale di un lungo periodo, quello aureo dell’industria discografica, quello nel quale la discografia era a pieno titolo un’industria dai lauti guadagni e soprattutto autosufficiente, oramai irrimediabilmente andato.

È del resto impossibile, oltre che scorretto musicalmente parlando, porre sullo stesso piano i sound influencer e gli artisti musicali, oggigiorno sempre più rari. Non fare le debite distinzioni, il fare di tutta l’erba un fascio, presuppone infatti un equivoco di fondo, il considerare gli uni e gli altri espressione di un medesimo settore artistico e produttivo.

Un settore, quello dell’industria discografica, che ha talmente cambiato volto, sostanza, scopi e ambizioni da non poter più essere detto tale, da dover essere inquadrato, anche qui, con un impianto lessicale nuovo di zecca: trattasi non più infatti di un’industria eminentemente musicale, bensì di un’industria, per buona parte, del brand sonorizzato. Una nuova industria dunque che poco o nulla ha più a che fare coi suoi modelli economici, produttivi e culturali precedenti: un’industria che prende a prestito usi e costumi della pornografia finendo per diventarne una sorta di surrogata, di anticamera.

Del resto, per bassi scopi servono bassi contenuti: se l’obiettivo, il fine, è quello di vendere prodotti, dentro e fuori le canzoni, quale miglior supporto se non il corpo femminile oggettificato e mercificato? È la maestra pubblicità a insegnarlo: come vendono un sedere, una coscia e due belle tette non vende nient’altro.

E a indorare la pillola prontamente giungono le figure femminili della musica mainstream, che in un corto circuito della logica basilare e una narrazione studiata a tavolino si fanno portatrici sane della più originale, chiamiamola così, delle equazioni possibili, quella secondo cui mostrare il sedere è chiaro, tangibile, effettivo segno di emancipazione femminile. Anche per questo genere di associazioni ci vuole creatività.

È dunque così che gradualmente, passo dopo passo, l’ultimo quindicennio ha visto emergere e affermarsi la nuova discografia, quella brandizzata e sensuale, quella del brand sonorizzato, quella dei contenuti zero e degli accordi di riservatezza con le multinazionali della moda, del lusso, dell’orologeria e di chiunque possa tenere a galla un gruppo di potere sempre più ristretto, culturalmente nullo, artisticamente defunto.

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