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Sicurezza idraulica, la battaglia del Piave

«Il Piave è una bomba innescata sulla testa dei veneti», parola di Luigi D’Alpaos, decano della scuola di ingegneria idraulica dell’Università di Padova, ispiratore del piano di sicurezza idraulica del Veneto. Eppure è l’unico fiume su cui proprio quel piano, coi suoi 23 bacini anti alluvione, si è incagliato.

Il nodo è sempre il solito, da decenni: la contrastatissima localizzazione delle casse di laminazione che hanno il compito di ridurre le piene ed evitare gli allagamenti a valle. Non proprio delle... vasche da bagno, per citare l’assessore regionale alla Protezione civile Bottacin: complessivamente dovrebbero intercettare circa 90 milioni di metri cubi d’acqua (per capire le proporzioni, il “fiore all’occhiello” dei bacini, Caldogno, ne contiene sui 4 milioni).

Il fatto è che il Piave – che pure nel corso dell’ultimo secolo ha visto ridursi di oltre l’80% la sua portata media e che d’estate a Nervesa a causa dei prelievi a monte solitamente è ridotto a un rigagnolo da 5 metri cubi al secondo – in seguito a forti precipitazioni può moltiplicare la sua portata in modo esponenziale, arrivando a qualcosa come 5 mila metri al secondo (dato del 4 novembre ‘66): in un caso del genere, che secondo alcuni studi ha la probabilità di riproporsi ogni 100 anni, i morti potrebbero essere un centinaio, 400 mila le persone a rischio e 11 i miliardi di danni.

Dopo aver elaborato e scartato, o provvisoriamente accantonato, nel corso dei decenni quattro diverse opzioni (a Falze, alle Grave di Papadopoli, Spresiano e Ponte di Piave) per contenere le piene del fiume, l’Autorità di Bacino (l’ente statale che si occupa del dissesto idrogeologico e della tutela dell’acqua per le Alpi Orientali) ha individuato come opera prioritaria una cassa di laminazione da 35 milioni di metri cubi su un’estensione di oltre 500 ettari sulle Grave di Ciano, nel territorio di Crocetta del Montello, area ad elevato valore ambientale tanto da avere la qualifica di “sito di importanza comunitaria” e “zona speciale di conservazione”.

La scelta ha provocato la sollevazione dei Comuni (in primis Crocetta, che vedrebbe interessato dal bacino un terzo del suo territorio), ma anche dei comitati locali, degli ambientalisti e della comunità dei geografi.

Una loro qualificata rappresentanza si è ritrovata di recente a Villa Erizzo Navagero a San Biagio di Callalta in un convegno promosso dalla giornalista di Rete Italia Mirella Tuzzato, a cui sono intervenute le due sindache di San Biagio,Valentina Pillon, e di Crocetta, Marinella Tormena, anima degli oppositori in rotta anche col suo partito, la Lega, i colleghi dei comuni a valle (Alberto Teso di San Donà e Andrea Favaretto di Salgareda) da sempre minacciati dalle piene e dunque fortemente interessati alla realizzazione dei bacini a monte, la botanica Katia Zanatta, l’ambientalista Michele Boato, il presidente del Comitato di tutela Franco Nicoletti, il geografo dell’Università di Padova Francesco Ferrarese e il docente di ingegneria idraulica Andrea Marion, allievo ribelle di D’Alpaos.

Uno spiegamento di forze che non ha incrinato la volontà della Regione di procedere rapidamente con la realizzazione del bacino, dopo che a marzo un ricorso presentato da otto comuni della zona è stato rigettato dal Tribunale delle Acque.

La progettazione, dal costo di 1,6 milioni di euro, è stata affidata allo studio milanese di ingegneria idraulica Etatec-Paoletti; l’elaborato dovrebbe arrivare in autunno, ma manca il passaggio più delicato: la sentenza ha infatti riconosciuto la valenza ambientale e paesaggistica del sito e ha chiesto che in sede di progettazione ci sia un confronto fra i diversi soggetti interessati.

Nell’incarico dunque «al fine di ottenere il migliore inserimento possibile dell’opera nel contesto locale» è previsto esplicitamente il loro coinvolgimento e, ovviamente, il rispetto della Direttiva europea Habitat sui Siti Natura e delle indicazioni in merito del Ministero dell’ambiente, affidandone la supervisione al Dipartimento di ingegneria Civile, Edile e Ambientale dell’Università di Padova: basterà a mitigare l’impatto del progetto e a superare l’ostilità dei comuni e degli ambientalisti?

Da quello che si è sentito nel convegno di San Biagio la risposta non è incoraggiante.

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Favorevoli e contrari

La storia delle Grave di Ciano e del relativo bacino antialluvione riempirebbe tranquillamente un grosso volume (ed è già oggetto di tesi di laurea).

Il sito si trova nella curva del Piave a nord del Montello, precisamente tra la destra del corso d’acqua e quello che fino agli anni ‘80 era il ramo sud del fiume, poi essiccato; si tratta di un ecosistema fluviale di quasi mille ettari, con un fondo di ciottoli e ghiaia su cui poggiano in particolare 200 ettari di prati magri steppici (magredi) considerati uno scrigno di biodiversità e quindi sottoposti a protezione comunitaria: e si sa quanto la drammatica riduzione della biodiversità in atto nel mondo costituisca un pericolo anche per il nostro futuro.

«Il Piave è l’ultimo corridoio ecologico rimasto fino al Tagliamento – spiega la botanica Katia Zanatta, dell’università di Trieste – Ma quella piccola area, tra le più selvagge del Veneto, ospita da sola il 10% delle specie vegetali esistenti in regione».

Questi prati, il territorio e i borghi circostanti convivono da sempre in un equilibrio fecondo ma molto precario col fiume, le cui acque durante le piene invadono queste aree ma senza trattenersi.

Ben diverso sarebbe il comportamento dell’acqua in presenza di un bacino, che secondo l’originario progetto di massima citato dagli oppositori prevede uno scavo profondo 4 metri per una superficie totale di 555 ettari, circondati da un argine alto fino a 8 metri e lungo 13,5 km.

«É verosimile – dice il geografo Francesco Ferrarese – che l’acqua bloccata per giorni, fino al deflusso delle future piene, lascerebbe dai 30 ai 50 centimetri di fango e rifiuti, distruggendo irreparabilmente l’attuale habitat».

Accanto alle valenze naturalistiche e paesaggistiche a “remare contro” il bacino ci sono anche le reminiscenze storiche, visto che il greto del fiume è stato teatro di feroci combattimenti durante la Grande Guerra, ricordati dal monumento sull’Isola Verde, ribattezzata Isola dei Morti.

L’assessore Bottacin contesta queste ricostruzioni, ma soprattutto il primato della salvaguardia ambientale che le ispira.

«I vecchi progetti sono stati abbandonati – spiega – e uno nuovo ancora non c’è, come ha dichiarato lo stesso Tribunale delle Acque respingendo il ricorso dei Comuni: io avevo più volte cercato di coinvolgerli in una nuova redazione, ottenendo per tutta risposta un netto rifiuto e il ricorso legale».

Il professore di ingegneria idraulica Andrea Marion, osserviamo, sostiene che fra Ciano e Ponte di Piave (dove poi il fiume viene incanalato fra alti argini, a loro volta con seri problemi di tenuta), ci sono 30 chilometri di fiume dove potrebbero trovare posto altre casse di espansione, meno dannose, come quelle previste a suo tempo dalla Commissione De Marchi e poi accantonate.

«A decidere questa ubicazione non è stata la Regione, ma l’Autorità di Bacino, in base al rischio alluvionale: noi siamo solo il soggetto attuatore. Se mi viene presentata una proposta alternativa a Ciano, di pari efficacia idraulica, io non ho problemi a prenderla in considerazione; altrimenti sono tenuto a procedere secondo quanto indicato dall’Autorità. Abbiamo perso fin troppo tempo. Per quanto riguarda l’ambiente, nessuno vuole distruggerlo, ma la mia priorità – e ne sono certo, anche quella dei veneti – è salvare le vite umane».

Sulla stessa lunghezza d’onda anche il professor Luigi D’Alpaos, che fra i suoi allievi boccia senza remore Marion e promuove Bottacin.

«Si parla di scavi e cementificazioni sulla base di progetti che ancora non esistono: ma chi parla a vuoto dovrebbe essere chiamato a pagare, nel caso accadesse qualcosa di grave. E che la situazione sia grave, sul Piave, ma anche sul Livenza, sul Tagliamento e sugli altri fiumi veneti, noi lo sappiamo bene. Bisogna prendere atto che di queste opere ne servono molte altre, da realizzare sistematicamente nei prossimi 20 o 30 anni».

Un approccio puramente ingegneristico e del tutto obsoleto, secondo gli oppositori, che senza demonizzare i bacini auspicano un approccio più naturale e globale ai problemi del fiume, che arrivi anche a restituirgli, come avviene in Olanda a fronte dell’innalzamento del mare, gli spazi che nel passato gli sono stati sottratti. Due filosofie difficili da conciliare.

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