Carpinteri & Faraguna, la ditta che aveva previsto le fake news
TRIESTE Bortolo e Siora Nina, l’avvocato Miagostovich e Marco Mitis, e poi Barba Nane e Barba Checo, le munighe del squero: una lunga sfilata di divertenti e delicate figurine del mondo dell’altro ieri che vivono ancora nel ricordo di chi ha letto i libri della premiata ditta Carpinteri & Faraguna. Tutta gente appartenuta a una Trieste sbiadita, se non inabissata, il cui spirito maggioritario, quella pancia nostalgica e brontolona ma pronta all’ironia, al motto canzonatorio mai volgare, intelligente e leggero, Lino Carpinteri e Mariano Faraguna avevano interpretato e dato voce con le loro Maldobrie, storie ambientate ai tempi dell’impero austro-ungarico, scritte con un istroveneto di loro invenzione, e sulle pagine della Cittadella, storico e longevo inserto satirico del Piccolo.
Dire figurine poi, è inesatto, non erano per niente esili quei nostromi, capitani di macchina, vecchi d’ospizio di ‘Prima della prima guerra’ per citare uno dei libri di C&F; la loro umanità profumava della salsedine di quei mari del sud che si aprono all’immaginazione appena superato il faro di Salvore, e che proveniva dall’essere personaggi autentici, vissuti veramente, condensati nei racconti che si tramandavano grazie ai filò che nascevano nelle cittadine istriane e dalmate.
Un baule pieno di gente che apparteneva soprattutto a Mariano Faraguna, mamma di Cherso e papà di Rabaz, che univa la ricchezza dei ricordi alla sagacia nell’abbellirli. Il suo estro comunicativo e a un tempo raffinato si sposava benissimo alla pignoleria lessicale e alla cura nella redazione dei testi di Lino Carpinteri. I due si completavano a vicenda, anche se fuori dal lavoro non si frequentavano troppo.
La ‘ditta’ sarebbe oggi centenaria: entrambi nati nel 1924 (Faraguna l’8 settembre, Carpinteri il 27 maggio), si conoscono ventenni nel settembre del 1945 nella redazione del Caleidoscopio, quindicinale studentesco di una Trieste che pullula di fogli di informazione, boccata di libertà dopo la dittatura. Le prime esperienze giornalistiche Carpinteri le compie alla Voce libera, Faraguna alle Ultimissime, poi si ritrovano alle Ultime notizie e infine al Piccolo. Al giornale, allora in via Silvio Pellico, portano in dote la loro Cittadella, un foglio umoristico scritto per la maggior parte da loro sotto gli pseudonimi di Ruben, Padreterno e Melchiorre; le vignette le disegnano Renzo Kollman e sua moglie Josè, della ‘ditta’ sono le battute. Che nascono in redazione, quando aspettano che i tipografi compongano gli articoli. Era un mondo fatto di inchiostro e di linotype, rumori e odori che pochi ricordano.
Renzo Sanson, una vita al Piccolo, è tra questi e rammenta: «Carpinteri si occupava delle Segnalazioni e al giornale faceva il lavoro cosiddetto ‘di cucina’, Faraguna era capo servizio». Avevano una stanzetta-pensatoio abbellita da due poltrone Frau, in cui Faraguna sprofondava, elegante in giacca e panciotto, pescando nei racconti che aveva sentito in casa e riprendendo umori e battute raccolte alla fermata dell’autobus e Carpinteri batteva alla macchina da scrivere, approvando o cambiando, e il gioco continuavano così, finché un risolino segnava l’unanime approvazione, ricorda Sanson.
Che tempi, che ridade, si potrebbe dire usando un’altra espressione di C&F, coniata per i racconti del Campanon, una rubrica che dagli anni Cinquanta andava in onda la domenica su radio Trieste. Protagonista era il Noneto, un vecchietto dei tempi della Defonta, ovvero dell’Austria che era, e non poteva essere altrimenti, un Paese ordinato. Il loro background era quello, nostalgie imperialregie, occhio critico sul presente, irredentismo deluso, amor di patria che si sente tradito dall’Italia, un’impronta naturalmente anticomunista.
Li accusano di essere di destra, troppo, ma uno è iscritto al Pri, l’altro al Pli. Erano due borghesi, ma non ‘eroici’, anzi quella borghesia, pronta al compromesso storico, radical chic che veste giacca e maglioni girocollo finisce alla berlina sulla loro Cittadella. I libri, le ‘Maldobrie’ (1967), ‘Serbidiola’ (1964), ‘Noi delle vecchie province’ (1971), vendevano molto. Alla libreria Svevo tenevano accanto alla cassa una pila di volumi già incartati. “Me vergogno de quanto vendemo”, diceva Faraguna, come ricorda oggi il nipote Dino, stesso cognome, medico e scrittore pure lui.
Nel 1986 la Contrada si affida al duo per aprire la stagione teatrale. ‘Due paia di calze di seta di Vienna’ ha enorme successo, la gente è in fila dal botteghino del Cristallo fino a piazza Perugino. Intanto l’editore Carlo Giovanella compra i diritti e pubblica 19 libri di C&F con la sua Mgs Press. Il finale è amaro. Il gruppo Caracciolo-l’Espresso che aveva rilevato Il Piccolo decide di non rinnovare il contratto con C&F per la Cittadella, che dopo oltre 50 anni cessa di esistere.
L’ultimo numero esce nel marzo del 2001, due mesi dopo muore Faraguna. Il socio, in un’intervista di qualche anno dopo ne ricorderà “le geniali imprevedibili associazioni di idee”. Carpinteri, che continuerà a scrivere, ma solo sull’amato dialetto, perché, nonostante le insistenze, non sfornerà più una maldobria, morirà nel 2013. Di loro resta, tra le tante, la chiusa di ‘Cosa dirà la gente’, in cui avevano previsto le fake news di oggi: “Mi credo che i scrivi sta roba solo per insempiar la gente”.
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