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Aberrazioni alimentari: ora pure il caffè viene prodotto in laboratorio



Dimentichiamoci della moka, delle cialde, del bell’espresso ordinato al bancone di un bar. In nome del cambiamento climatico sono in arrivo i macinati creati in laboratorio, preparati in bioreattori con procedimenti simili a quelli con cui si produce la carne sintetica. Ma il loro gusto sarebbe ancora lontano dalle amate miscele, mentre gli effetti collaterali sono tutti da scoprire.

Germoglia un nuovo tipo di caffè. Non nelle piantagioni, ma nei laboratori, dove una delle bevande più consumate e desiderate al mondo nasce da cellule coltivate in bioreattori oppure dalla miscela di molecole estratte da altri ingredienti naturali per imitarne aspetto e sapore. Cloni e sosia dell’espresso che si prefiggono di soddisfare la sete globale di caffè (equivalente a 3,1 miliardi di tazzine al giorno, nel 2023) quando di caffè non ce ne sarà più a sufficienza per tutti. Succederà entro il 2050, in base al rapporto dell’Ipcc, il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico. Per allora parte della terra utilizzata per le coltivazioni, sostiene il documento, potrebbe essere improduttiva a causa dell’aumento delle temperature.

Dunque ecco il caffè non «al vetro» ma «in vitro», la cui realizzazione procede a tutto vapore. Sono molte le start up alle prese con la nuova invenzione. Accade in California, a Sacramento, dove un’azienda chiamata California Cultured promette di produrne con caratteristiche identiche a quello tradizionale, fino all’ultima molecola, compresa l’imprescindibile caffeina. Lo stesso obiettivo è perseguito da Stem, in Francia, e da Food Brewer, in Svizzera. In Finlandia, il centro di ricerca tecnica VTT ha prodotto il primo espresso da coltura cellulare nel 2021. Due anni dopo, gli stessi ricercatori che lo hanno realizzato hanno pubblicato uno studio per evidenziarne luci e ombre: odore e sapore erano simili a quello dello zucchero bruciato, mentre l’amarezza ricordava quella del caffè convenzionale.

«Estraggono alcune cellule dalla pianta presente in natura e poi le coltivano all’interno di bioreattori alimentandole con nutrienti, per esempio sali minerali e facilitatori di crescita» spiega Marco Dalla Rosa, professore di Tecnologia degli alimenti all’Università di Bologna. È lo stesso metodo utilizzato per la carne sintetica, le cui cellule sono coltivate in un’incubatrice mediante sieri ricchi di sostanze nutritive. Con la differenza che per sviluppare le cellule animali e scongiurare il rischio di contaminazioni spesso si utilizzano anche antibiotici.

«Nel bioreattore non cresce una pianta, ma si ottiene una biomassa, che viene raccolta, essiccata, tostata e poi macinata per ottenere la bevanda» prosegue Dalla Rosa. In teoria (e geneticamente) si tratta di un caffè; nella pratica è qualcosa che lo ricorda. Ancora poco si sa delle sue proprietà salutistiche, quelle per cui l’espresso tradizionale è famoso: due-tre tazzine al giorno, dicono gli studi scientifici, fanno bene al cuore e al cervello. E quello creato in laboratorio? «Dal punto di vista nutrizionale ci si avvicina all’originale, ma una biomassa che deriva da una coltura cellulare e un macinato di chicchi di caffè nati da una pianta che ha affondato le radici nella terra non possono essere identici», riflette Dalla Rosa. «Per analogia, possiamo rendercene conto mangiando i pomodori da coltura idroponica (un metodo che consiste nel far crescere le piante senza terra, con le radici immerse in una soluzione nutritiva, ndr) che hanno un sapore diverso da quelli coltivati nei campi. Il motivo è semplice: il terreno ha una ricchezza biologica di sostanze organiche e microrganismi che difficilmente si può riprodurre in laboratorio».

Anche sapore e aroma di questi surrogati rimangono una grande incognita. Eppure dal punto di vista dei consumatori è forse l’aspetto più importante, soprattutto in un Paese come l’Italia dove, racconta un’indagine realizzata quest’anno da AstraRicerche per il Consorzio promozione caffè, per sette persone su dieci il rito del caffè è un viaggio capace di coinvolgere tutti i cinque sensi, in primis l’olfatto, con il profumo di un bell’espresso o dei chicchi tostati, e il gusto. «In Italia abbiamo un livello di torrefazione elevato rispetto al resto del mondo, il nostro caffè sprigiona un’aroma più intenso. Il profumo della moka per tanti italiani è qualcosa di insostituibile, radicato nella cultura e nella tradizione» ricorda l’esperto. «Queste tecnologie rappresentano un’opportunità per creare prodotti alimentari alternativi con un minore impatto e utilizzo delle materie prime, specialmente se pensiamo che all’estero si bevono notevoli quantità di caffè solubile e in Giappone è abitudine il consumo della bevanda in lattina, ma non credo saranno mai un’alternativa reale in Italia».

Al netto dell’accoglienza da parte dei consumatori, il caffè artificiale rientra nella categoria dei «novel food» e come tale, prima di essere venduto nei bar e nei supermercati europei, dovrà superare due esami: quello dell’Efsa, l’Autorità europea per la sicurezza alimentare che ne valuterà la sicurezza per i consumatori – perché nonostante le aziende scrivano di realizzare prodotti biologicamente equivalenti al caffè naturale, si tratta di metodi e ingredienti nuovi – e poi quello della Commissione europea, che ne acconsentirà la commercializzazione. Al momento, fa sapere l’Efsa, nessuna richiesta di valutazione è stata inviata.

Non ha invece bisogno di via libera - e infatti ci sono aziende che lo vendono già - il cosiddetto caffè senza chicchi, una miscela di composti estratti da altre piante per imitare l’espresso. A occuparsene sono aziende come l’americana Atomo, con sede a Seattle, le californiane Voyage Foods e Compound Foods, e in Olanda la Northern Wonder, che a fine 2022 ha iniziato a vendere anche il formato in capsule. «Con una tecnica di estrazione prelevano le componenti che caratterizzano i chicchi del caffè da altri ingredienti naturali» riprende il docente di tecnologia dell’Università di Bologna. Per esempio la caffeina dal tè verde o dagli scarti dei prodotti deteinati, il fruttosio dalla frutta, la quota proteica dai piselli, gli aromi dal limone, e così via. «Dopodiché le miscelano e ottengono un composto da macinare e da cui ottenere una bevanda che emula il sapore e il gusto del caffè. Non abbiamo a disposizione le ricette, perché sono segrete, ma sappiamo che è difficile riprodurre la complessità di ciò che avviene in natura. Dopotutto le proprietà nutrizionali dell’espresso sono dovute sia alla caffeina, sia a una miriade di composti bioattivi che provengono dalla pianta e dalla tostatura». Negli anni gli studi scientifici sono arrivati a contarne e descriverne circa mille: per la Nutrition foundation of Italy il caffè è una delle fonti dietetiche più abbondanti in antiossidanti naturali, molecole che rallentano o prevengono i danni dell’invecchiamento. Conclude Enzo Spisni, che all’ateneo bolognese insegna Nutrizione e sostenibilità ambientale: «Sì a caffè più sostenibili, a patto che restino una miscela di sostanze naturali prive di effetti nocivi. Se dovessero proporci delle miscele di additivi artificiali, che possono avere interazioni negative con il nostro intestino alterandone la flora batterica, allora sarà bene limitare il consumo di questo nuovo tipo di bevande».

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