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Palude Venezia: dentro c’è il potere, fuori gli indignati. «Ci sentiamo feriti»

E’ arrivato il giorno. La città lo aspettava da tre settimane, da quando una mattina abbiamo sentito notizie che, da tangentopoli in poi, non ci sorprendono più, ma di cui siamo stufi, davvero stufi, che siano diventate una consuetudine. E il giorno è arrivato il 2 agosto, che non sarà mai una data qualunque, per noi italiani. Tale è l’attesa che c’è chi è arrivato in abbondante anticipo, magari per riuscire a prendere posto all’interno della sala consiliare. Un’attesa che, fra l’altro, non prevede colpi di scena. Proprio per questo è allora più interessante starsene all’esterno, in piazza, fra la gente, nel cuore della contestazione.

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In via Palazzo ci si arriva a piedi, e lo striscione, bianco e rosso, lo si percepisce già molte decine di metri prima, sia che si arrivi da Viale Garibaldi, sia da Piazza Ferretto, appeso lassù, sulla scala esterna della Provvederia. Non occorre vederlo da troppo vicino per sapere cosa dice: “Brugnaro dimettiti”. Anche il sindaco non può non averlo notato, piazzato là di fronte, ad altezza delle finestre dove lui si trova fin dal mattino. Fuori dalla sede mestrina del Municipio di Venezia i cittadini sono centinaia. Più di mille, dice qualcuno, e non sono neanche le dieci. La stragrande maggioranza resterà lì fino alla fine, oltre tre ore dopo.

Ci sono le associazioni, certo, ma non solo. C’è la società civile, c’è Venezia e c’è Mestre e nessuna bandiera di partito. Ci sono famiglie intere, gente di ogni età, tutti lì, accomunati dall’indignazione e da un senso di rabbia che al contempo è anche di vergogna. Vergogna cui sembrano immuni i rappresentanti del potere, rinchiusi là dentro, anche se pure loro, la giunta di centro-destra, non possono non sentirli i cori e i fischietti, che per tutte le tre ore e oltre non si fermeranno mai. Cori e fischi che sono l’accompagnamento degli interventi del consiglio comunale, amplificato dall’impianto portato dai ragazzi del movimento No Grandi Navi.

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Il più fischiato è naturalmente il discorso del sindaco, e non soltanto perché era prevedibile accadesse, ma anche perché invece di chiarire le vicende per cui un suo assessore è finito in carcere e tutto il resto, invece di provare a smontare i punti di un’inchiesta che sta facendo parlare il mondo intero, fa una lunghissima panoramica su tutto il bene che la sua giunta ha fatto in questi nove anni. Snocciola cifre, date, delibere, documenti, che ai cittadini quaggiù, col sole a picco sulle teste, sai quanto possono interessare.

I passaggi dove, dalle righe del discorso che il sindaco sta leggendo, un minimo di autodifesa salta fuori, mi viene fatto notare che sembra lo stesso tono di quando da piccoli ci difendevamo dall’accusa di avere aperto il vasetto della marmellata. “Ma chi glielo ha scritto ‘sto discorso?”, fa uno là vicino. E gli hanno pure scritto che lui ha sempre avuto un sogno e un’utopia, ma non si capisce di che cosa.

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Sì, meglio i fischietti, forse, i cui decibel raggiungono vette inaudite quando il sindaco parla del suo amore incondizionato: la Reyer. Stesso picco che si raggiunge quando viene evocato l’ex assessore Boraso che, dice una signora: “Ecco, il classico capro espiatorio. Mi fa quasi tenerezza”. “Sì, ma quasi, però, eh?”, replica uno lì accanto, dopo essersi sfilato il fischietto dalle labbra. E aggiunge: “e po’ vara ti, ah, era uno che passava di là per caso, a insaputa di tutti”. Un’ora, forse più, il discorso del sindaco, che replicherà, questa volta a braccio, dopo gli interventi dei consiglieri.

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C’è una sua frase che sono riuscito a captare con chiarezza, nel suo primo o secondo intervento: “Mi piacciono le sfide, soprattutto le più difficili. Non mi dimetto!”, ma quaggiù – si affacciasse lo capirebbe subito – ci sono un migliaio di cittadini pronti ad accettarla, quella sfida. Pronti, come lui, a non mollare un solo centimetro. A farlo in nome di una città che sentono ferita, che ha bisogno di cure. E in fretta.

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