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Da Angela Carini a don Camillo: sul ring con onore e lealtà. Oltre il cinismo del mondo moderno

La scena della giovane Angela Carini in ginocchio sul ring di Parigi mi ha riportato alla mente i versi della poesia “Seminterrato” di Tasos Leivaditis: «Sconfitte, mie compagne che nel giro di un istante, mi salvaste dalle eterne paure della sconfitta». Non mi interessa entrare nei dettagli di questa grottesca vicenda ma voglio limitarmi a […]

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La scena della giovane Angela Carini in ginocchio sul ring di Parigi mi ha riportato alla mente i versi della poesia “Seminterrato” di Tasos Leivaditis: «Sconfitte, mie compagne che nel giro di un istante, mi salvaste dalle eterne paure della sconfitta». Non mi interessa entrare nei dettagli di questa grottesca vicenda ma voglio limitarmi a qualche osservazione. In un mondo che mette in scena costantemente la competizione, la vittoria ad ogni costo, l’agonismo a pagamento, fermarsi dinanzi ad un avversario percepito come sproporzionato rispetto alle proprie forze è un segno di grande nobiltà d’animo. Inginocchiarsi in quella postura che ricorda i nobili sconfitti nipponici, non aver paura delle lacrime, ancor prima di vedersi arretrare col volto tumefatto in un angolo, è un gesto che stupisce, un gesto che ci riconcilia con l’umanità dell’atleta.

Mentre dall’altro lato l’esultanza di chi vince senza combattere genera un istintivo moto di indignazione, oserei dire di tristezza. Ma ciò non riguarda tutti. Anche un incontro di boxe scade inevitabilmente nella polemica politica, perché sarebbe di destra pretendere che sport femminili siano praticati da donne alla pari, e di sinistra predicare l’inclusione ad occhi chiusi, soffermarsi sui dettagli endocrinologici, intervistare genetisti e affini, fingendo di ignorare le determinazioni di una federazione sportiva internazionale. Tutto questo è semplicemente grottesco, ancor più dei Dionisi blu serviti su di un piatto d’argento nell’eterno carnevale dell’Occidente contemporaneo. Per la boxe non ho mai avuto una speciale passione, ricordo solo l’entusiasmo di mio nonno Carlo, già terzino del Gallipoli in epoche assai remote, quando seguiva gli incontri in televisione. L’insegnamento del nonno? Che le questioni sportive non possono, non devono diventare appannaggio di polemiche di fazione: lo sport è emozione ed empatia.

Quando è in ballo una evidente sproporzione di forze ci si dovrebbe unanimemente indignare. Un po’ come don Camillo che sale sul ring per difendere l’onore di Peppone messo all’angolo dal “campione provinciale Gorlini”, e in men che non si dica, con l’aiuto dello Spirito Santo, lo mette al tappeto. Ma in questo caso il suo onore la giovane Angela l’ha difeso da sé. Ha dimostrato che il mondo reale anche quando sembra sconfitto dall’ideologia, dalla furia cieca della sovversione imperante, è il reale vincitore. Perdenti sono al contrario tutti coloro che in nome di un bias ideologico si sono affannati a condannare in partenza la pugile italiana, a vedere strane trame politiche, a riaffermare che avrebbe potuto e dovuto battersi fino alla fine, perché l’avversaria non era imbattibile. Ma d’altro canto si tratta spesso di un mondo dell’informazione che dinanzi alla sproporzione dell’eccidio di Gaza non sembra aver molto da dire.

Questo perché il cinismo, il pregiudizio e un certo fiuto per il potere, hanno preso il posto del buon senso, del reale. E non mi si venga a dire che la boxe è uno sport violento e dunque bisogna anche accettare di poter sanguinare alle prese con un avversario discutibile. Lo stesso Platone praticava il pancrazio che era ben più violento della boxe. E se vogliamo restare in ambito ellenico, occorre ricordare che le prime gare per sole donne nello stadio di Olimpia furono istituite secondo la leggenda già da Ippodamia, moglie di Pelope, mitico fondatore delle olimpiadi. Si chiamavano Heraia ed erano per l’appunto dedicate alla dea Era. Qui le giovani vergini correvano indossando una tunica corta fino al ginocchio. Nelle Heraia a sovrintendere le gare era una commissione di sedici donne dell’Elide. Donne che giudicavano donne, sotto la protezione di una dea.

L’antichità ci insegna che le liquide ossessioni della modernità vanno ben oltre i diritti e le libertà degli individui, comportano una revisione antropologica dalle conseguenze non facilmente prevedibili. Ed è bene che queste questioni non vengano obliterate in nome di una presunta “tolleranza”. E’ bene che esplodano tutte le contraddizioni, tutte le disarmonie, tutti gli obnubilamenti del mondo in cui viviamo. Che se ne parli, senza etichette, senza pregiudizi politici, che il reale si riprenda il suo posto nel mondo. Perché questo mondo lo plasmiamo noi coi nostri pensieri e le nostre azioni, lo lasceremo ai nostri figli, lo viviamo ora. Spetta a noi cercare di raddrizzare le sue storture, ritornando al reale. Proprio a partire da quelle sconfitte che possono “salvarci dall’eterna paura della sconfitta”.

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