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La rivoluzione della carne coltivata: è la Francia a fare la prima mossa

Segnatevi questo nome: Gourmey. È la prima azienda europea, francese nella fattispecie, ad aver chiesto all’agenzia Ue per la Sicurezza alimentare l’autorizzazione a produrre foie gras coltivato in laboratorio.

Per l’ad della società, Nicolas Morin-Forest, è un’idea meravigliosa, perché consente di gratificare il palato a costo ambientale zero e può ridurre la tortura delle oche allevate e gonfiate in batteria.

Per l’Efsa, l’ente che vigila su quello che mangiamo, segna l’avvio di una inchiesta scientifica che la terrà occupata per almeno 18 mesi e alla fine, comunque vada, genererà sicura zizzania.

Per l’Italia, unico Paese che ha vietato la vendita di quella che il governo chiama “la carne Frankenstein” senza che essa sia prodotta e consumata, è il possibile inizio della fine di una legge che, ai sensi del diritto comunitario e non solo, suscita controversie.

Ovvero un provvedimento che, se l’Europa dovesse dire sì alla Gourmey, verrebbe superato dalla giurisprudenza a dodici stelle e, di fatto, sarebbe cancellato con un tratto di penna blu e giallo.

Tutto questo si sapeva, ma ora succede. L’intero dibattito è fabbricato sulla eterogenesi dei fini, nello scontro fra lobby, interessi e ambizioni che ha confuso una bella fetta di opinione pubblica, convinta che la carne in vitro sia sintetica, cosa che non è.

Uno dei primi atti del governo italiano di centrodestra è stato un ddl ispirato dalla Coldiretti, con il quale ha vietato la produzione e la commercializzazione di questa categoria di alimenti.

Lo ha fatto preventivamente – in Europa nessuno vende bistecche da laboratorio – e secondo i più arbitrariamente – l’attività legislativa nel mercato unico è competenza del Consiglio Ue, cioè dei governi, fra cui l’Italia, in accordo con l’Europarlamento.

È chiaro sin dall’inizio che una decisione dell’Efsa ha facoltà di scavalcare il Parlamento. Si è deciso di andare avanti lo stesso, senza considerare il caveat giuridico evidente.

Verrà il momento, mettiamo a inizio 2026, in cui il caso deflagrerà, anche perché Roma non è sola nella campagna che unisce i sovranisti di tutto il globo, Donald Trump compreso. Ci sarà battaglia. Ma su cosa? La carne coltivata o cresciuta in laboratorio viene prodotta utilizzando un incubatore che opera a 37 gradi su un campione di cellule animali autentiche, formando muscoli, grasso e tessuti connettivi. L’idea di fondo è fornire nuovo cibo sano e a basso costo da fonti alternative limitando la mattanza di animali.

Per il diritto comunitario è un “novel food”, la cui commercializzazione è oggetto di una disciplina che gli stati membri e l’Europarlamento hanno elaborato a partire dal 1997. I Trattati dicono che se per l’Efsa va bene, va bene per tutti.

L’alternativa è uscire dall’Unione, ma non sempre. Il Regno Unito ha appena approvato la vendita di cibo per animali domestici fatto con cellule coltivate di pollo. La ditta Meatly lancerà il prodotto a fine anno: l’ad Owen Ensor è convinto che “ora sul pianeta gli animali verranno trattati in modo più gentile”; il riferimento è anzitutto alle galline.

In principio fu, comunque, un hamburger da 250 mila euro. A cucinarlo fu un professore dell’università di Maastricht nel 2013, Mark Post, dopo averlo prodotto in laboratorio.

Lo propose ad alcuni gourmet che reagirono con compostezza. “Sembra carne, ma non è altrettanto gustosa”, fu una valutazione condivisa. Si era agli inizi e quello che gli oppositori del cibo coltivato considerano “il Barone Frankenstein redivivo” considerò il risultato più che soddisfacente.

La ricerca e il mercato sono andati avanti coi piedi di piombo. Nel 2020 l’Agenzia per la sicurezza alimentare di Singapore ha autorizzato la vendita di pollo coltivato nei ristoranti del Paese asiatico.

Nel gennaio scorso, il ministero della Sanità israeliano ha dato il via libera alla commercializzazione di fettine di bovino da laboratorio. In aprile, l’olandese Meatable ha organizzato un evento a Leiden per far gustare a un parterre selezionato il maiale forgiato dalle sue officine scientifiche.

Contemporaneamente ha annunciato di aver dimezzato, da otto a quattro giorni, il tempo per confezionare una braciola di tecno-suino senza macellare alcunché.

In Italia il duello s’è infiammato con un opuscolo diffuso da Coldiretti sulle cinque bugie della carne coltivata che “non salva gli animali, non salva l’ambiente, non garantisce la salute, non è accessibile a tutti, è un prodotto sintetico”.

Il governo Meloni, per tramite del ministro Lollobrigida, ha fatto sue le imputazioni delle lobby agricole e agito di conseguenza, vietando qualcosa che non esiste ancora, un po’come se si proibissero i viaggi low cost sulla Luna.

Sono princìpi “quasi completamente sbagliati”, ha detto a Politico il biologo di Tor Vergata, Cesare Gargioli.

L’obiettivo di Roma è una messa al bando della pratica a livello europeo, d’intesa con ungheresi e austriaci. Sarà un dossier rovente per la nuova legislatura e la nuova Commissione.

Nell’attesa che l’agenzia per la sicurezza alimentare faccia il suo dovere, è in vigore da dicembre la legge n. 172 che commina sino a 150 mila euro di sanzione a chi commercializza una cosa che non esiste, mentre un sondaggio Coldiretti afferma che il 70% degli italiani è contrario alla nuova carne e uno della Swg certifica l’esatto contrario. Chi ha ragione?

La Fondazione Veronesi ritiene che “il consumo di carne coltivata non rappresenta un rischio per la salute umana”. Greenpeace ricorda che le mucche producono fra l’11 e il 19% dell’effetto serra. Secondo lavoce.info il 40 per cento degli italiani è contro e il 45 per cento vede problemi, con la precisazione che il “no” è più di centrodestra e il “sì” è più di centrosinistra.

I cittadini sono scettici, ricordano pragmaticamente gli ungheresi, presidenti di turno dell’Ue. Così tutto lascia attendere un confronto aperto, carsico e acceso per un anno e mezzo. Poi sarà l’Europa a deliberare su Gourmey e i suoi 53 milioni di investimenti. Perché nessuno stato può imporre all’altro le sue scelte.

E tutte le politiche del grande mercato, bistecca e cosce di pollo comprese, vanno decise insieme. Naturalmente a maggioranza qualificata.

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