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Vigile del fuoco contrae l’epatite B in servizio: salvato da un trapianto all’ospedale di Padova

Enrico Bollini è la testimonianza vivente che nessuna buona azione resta impunita. Ma anche del fatto che talvolta l’essere umano – in questo caso la scienza – è in grado di rimediare alle ingiustizie della sorte.

La storia – medica – di Enrico, inizia 8 anni fa in un paesino del Trentino, Casal San Bovo abbattendosi con ferocia sulla vita di un brav’uomo di 39 anni: lavoro da carpentiere, vita sana e nel tempo libero sport e, soprattutto, volontariato nei vigili del fuoco di cui oggi è vicecomandante di corpo. È con questi ultimi che si trova il giorno in cui arriva una richiesta di intervento a sostegno del Suem: i soccorsi si recano in un’abitazione in cui versa un uomo in condizioni pietose. Sarà un intervento complesso. Ma come ogni giorno viene sera e a fine turno Enrico torna alla sua vita: «Dopo poco più di un mese ho cominciato a non sentirmi bene» racconta «ero stanco, ma soprattutto avevo un prurito pazzesco, così a un certo punto ho deciso di sottopormi a qualche esami».

La diagnosi è arrivata come un fulmine a ciel sereno: epatite B. «Mi tempestarono di domande» ricorda «mi hanno chiesto se avessi rapporti sessuali a rischio o se mi drogassi, ma nulla poteva essere più lontano dalla mia vita». A forza di ipotesi, grazie a un controllo del medico curante, Enrico viene a conoscenza della verità: l’uomo che qualche settimana prima aveva aiutato a soccorrere – che nel frattempo era deceduto – aveva l’epatie B. «Io faccio il carpentiere e ho sempre delle escoriazioni sulle mani e sulle braccia» racconta «e mi hanno detto che l’epatite B è molto trasmissibile. In una situazione concitata è bastato un guanto spostato, una ferita esposta, per contagiarmi».

Il 39enne a quel punto viene ricoverato nel reparto di Malattie Infettive di Trento: «Lì per fortuna ho trovato un’allieva della professoressa Burra che di fronte alle mie condizioni ha detto: “per l’amor di Dio portatelo subito a Padova”». Mancano pochi giorni a Natale e in quel momento Enrico per la prima volta ha paura: «Sono andato psicologicamente in tilt, ho temuto di non tornare più a casa» racconta «quando sono arrivato in ospedale a Padova mi hanno spiegato subito com’era la situazione. Sono sempre stati chiari con me ma anche molto umani» aggiunge «la professoressa Burra mi ha detto che avrebbe fatto del suo meglio, ma che c’era il rischio di dover affrontare il trapianto».

Dopo 22 giorni di valori epatici sulle montagne russe, le condizioni del 39enne precipitano: ha perso una dozzina di chili in 20 giorni, non mangia e il suo colorito è completamente giallo. Il verdetto è senza appello: urge un trapianto, 48 ore il tempo per trovare un organo compatibile. Viene lanciato un allarme nazionale ed europeo. Ed è lì che, forse, la sorte fa timidamente ammenda: «Le mie condizioni di salutista e sportivo, ma mi vien da dire anche il fatto che fossi finito in quelle condizioni facendo il volontario, mi garantivano buoni voti nella “pagella del malato”» racconta ancora «ricordo che il martedì è partita la ricerca e mercoledì mattina alle 4 mi hanno portato in sala operatoria. A quel punto, dopo giorni in cui non ci stavo più con la testa, prima dell’intervento ho trovato una certa lucidità e ho pensato “o la va o la spacca”. Ho salutato mia madre e la mia ragazza. Ero sereno, sapevo di essere un buone mani».

Dopo 12 ore Enrico si sveglia: «Ho aperto gli occhi e mi sono sentito rinato. Il primo ricordo che ho è il sollievo perché finalmente non provavo più quel prurito assurdo per cui ero arrivato a farmi sanguinare la pelle. Lì ho capito che doveva essere andata bene» sorride. Dopo 9 giorni Enrico viene dimesso: «In reparto mi chiamavano il “fenomeno”» rivela «dopo 32 giorni ero sugli sci. Dopo cinquanta ho ripreso a lavorare. Da allora sono passati 8 anni e non mi sono più fermato».

Nel frattempo Enrico ha messo su famiglia con la compagna Jessica e, due anni fa, è nata Rachele. Ogni sei mesi viene a Padova per i controlli: «Mi hanno trapiantato un organo che aveva il 97% di compatibilità e seguo una terapia farmacologica molto leggera» aggiunge «la mia vita oggi è normale, al punto che mi hanno chiesto se volevo essere seguito in un ospedale più vicino a casa, ma ho risposto che non ci penso nemmeno. Restare a Padova mi dà sicurezza: non c’è stato un momento in cui non mi sia sentito protetto, avevo la certezza che le persone che mi seguivano non erano lì per caso, né io per loro ero un numero. Porto con me l’umanità che ho ricevuto da tutti, dal luminare fino alla signora delle pulizie».

Nessun rimpianto per quanto successo: «Quando esci per un intervento sai anche che potresti non tornare» conclude «certo c’è stato qualche momento in cui mi sono domandato perché fosse successo proprio a me. Ma poi si va avanti. Poteva andarmi peggio: ricordiamo che il mio fegato arriva da una persona che non c’è più. Né provo rancore per il poveretto che mi ha contagiato. E mi infastidisco quando qualcuno si riferisce a me come una persona fragile».

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