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Laboratori, corsi e attività sportive. Così i volontari fanno squadra nel carcere di Trieste

Laboratori, corsi e attività sportive. Così i volontari fanno squadra nel carcere di Trieste

foto da Quotidiani locali

TRIESTE L’altra faccia del carcere. Degli istituti penitenziari si parla quasi sempre per denunciare i problemi che li affliggono, dal sovraffollamento alle condizioni generali in cui vivono i detenuti, e via dicendo. Meno spesso si discute e si racconta il lavoro di chi spende il proprio tempo, a vario titolo, nel tentativo di dare piena applicazione al dettato costituzionale – «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato» (art. 27). A partire dagli operatori che lavorano nelle carceri, per arrivare all’universo vasto ed eterogeneo del volontariato.

Così è da salutare con favore l’iniziativa di “Cantiere carcere”, nata a luglio dell’anno scorso su spinta del vescovo di Trieste Enrico Trevisi, che raduna al suo interno 18 realtà laiche ed ecclesiali. Perché permette di accendere i riflettori sulle attività che ogni giorno, e da tempo, vengono organizzate nelle carceri, attività che rischiano altrimenti di rimanere coperte dalle disfunzioni e dai problemi di cui sopra.

Proprio a causa della quantità e della diversità dei soggetti coinvolti, il primo passo compiuto dagli organizzatori del progetto è stato incentivare il dialogo fra chi opera da anni nelle carceri, così da confrontare le esperienze di ognuno e ricercare i possibili margini di miglioramento. Un modus operandi in linea con lo «spirito sinodale» indicato da papa Francesco, come spiega la coordinatrice Vera Pellegrino della Caritas, che vede nella «modalità partecipativa» il principio fondante di Cantiere carcere.

Grazie a questo confronto costante è stato possibile sviluppare due linee d’azione, che a distanza di un anno continuano ad essere seguite dai volontari. Innanzitutto, vi è la fitta rete di attività promosse all’interno del carcere di via del Coroneo, alcune delle quali già esistenti prima del progetto ma migliorate grazie al dialogo con le altre realtà. Ad accomunarle, prosegue la coordinatrice Pellegrini, è la volontà di creare «strumenti di cura delle persone che vivono l’esperienza della reclusione». La direzione intrapresa è quella dell’articolo 27 sopracitato, cioè la «rieducazione del condannato» per facilitare poi il suo reinserimento sociale.

L’elenco è lungo e sarebbe impossibile descriverlo in modo esauriente. Pellegrino cita alcuni progetti emblematici, che riassumono bene quanto detto finora: dai laboratori artigianali della Caritas (rivolti soprattutto alle detenute donne), ai corsi di scrittura creativa della CoPerSamm Franco Basaglia, fino alla ginnastica e alle partite di scacchi del Coni. Oltre allo sviluppo delle «competenze trasversali» volte al reinserimento sociale, le iniziative possiedono un altro significato, più sottile e vicino ancora una volta alle parole del Papa: «Il filo conduttore – dice Pellegrino – è la costruzione di relazioni, con effetti positivi tanto sui detenuti quanto sui volontari». Perché il più grave pericolo per chi si trova in stato di reclusione è «essere lasciato senza fare niente, abbandonato a se stesso».

La seconda prospettiva che si sono dati i componenti di Cantiere carcere guarda fuori dagli istituti penitenziali. «È necessario che la comunità sia pronta al reinserimento dei detenuti», continua Pellegrino, che ravvisa in questo un «vulnus della nostra società». E la rivolta dei detenuti dello scorso luglio, ha cambiato qualcosa? «Ha provato tutti. Abbiamo cercato di ascoltare le loro richieste e il nostro supporto non è venuto meno».

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