Lotta alla mafia, quarant’anni fa lo Stato latitava: due miei aneddoti della Palermo di allora
All’inizio degli anni ’80, quando la mattanza voluta da Totò Riina mieteva vittime tra le vie di Palermo e dintorni, c’era un uomo che si aggirava – solo nel periodo di gran caldo – con un giornale in mano. Il giornale gli serviva per occultare la calibro nove con 16 colpi di cui uno in canna. L’uomo spesso lasciava l’auto civetta lontano e con i due suoi agenti raggiungeva a piedi il luogo degli omicidi e si mescolava tra la folla, per carpire notizie poco prima negate ai poliziotti in divisa.
Nella scena del delitto, la subcultura mafiosa la faceva da padrona. Ai primi spari c’era il fuggi fuggi, ma appena giungeva la prima pattuglia sbucavano fuori come funghi, consentendo ai bambini di vedere il macabro spettacolo. Farsi dare un lenzuolo per coprire i corpi era impresa difficile: talvolta nemmeno la pietà cristiana li faceva commuovere.
Ma non sempre l’uomo col giornale palesava la sua identità. Una volta intervenne nel cuore di Brancaccio, dove pochi minuti prima era stato assassinato un ottantenne a colpi di 38special. Gli uomini delle Volanti interrogarono i presenti; nessuno aveva sentito o visto nulla. L’uomo col giornale, trovandosi accanto a una persona anziana, commentò – tassativamente in dialetto – “Minkia comu si fa ad ammazzari un cristiano anziano?” L’uomo lo guardò e dopo un breve tentennamento rispose: ”Mi lassassi stari (mi lasci stare) mi tremano ancora le gambe. Ero assittato (seduto) davanti al bar cu u morto, quannu arrivò chiddu (l’anziano volse lo sguardo verso Ciaculli), che scendendo dal motore sparò al mio amico. Poi alzò il revolver in alto e disse guardandoci “cu chistu sunnu 57”, sparando in testa al morto. Con calma si allontanò col complice. L’uomo col giornale annuì e rispose: “U capivu cu è!” ma non fece il nome. Era Pino Greco “scarpuzzedda”. Alcuni mesi dopo, l’uomo col giornale arrestò la donna di Pino Greco, portandola nel carcere di Trapani.
L’uomo col giornale ero io e usavo lo stratagemma del giornale per non rovinare le t-shirt durante il caldo torrido: la sudorazione era insopportabile. Lavorare in quegli anni a Palermo era davvero difficile, sia per le centinaia e centinaia di morti ammazzati e poi perché non avevamo i mezzi necessari per contrastare l’assoluto potere di Cosa nostra. A nulla serviva la richiesta mezzi tecnologici, come autovetture diverse per i pedinamenti o computer e “cimici” che già c’erano. Lavoravamo empiricamente mettendo a disposizione dell’ufficio l’esperienza del territorio, che ognuno di noi portava in dote. Le frequentazioni amicali e anche parentali erano ridotte all’essenziale. Per fortuna, io potei contare su una schiera di amici d’infanzia che monitoravano la zona dove abitavo, soprattutto durante la mia assenza.
Una volta mi misero in guardia, visto che il capo famiglia di Villabate, Pietro Messicati Vitali, allora latitante, era solito frequentare il bar di fronte casa mia: fu arrestato da Beppe Montana.
Una delle prime cose che mi hanno insegnato da bambino fu “muto devi stare”: sono cresciuto a pane e mafia in ragione del lavoro di mio padre, che era in contatto col gotha di Cosa nostra. Il primo importante mafioso che conobbi si chiamava Antonino Cottone, avevo 6 anni. Poi a seguire i fratelli Greco Michele “il papa” e Salvatore “il senatore” e tanti altri. E il primo cadavere lo vidi a 10 anni.
Qualcuno si chiederà perché racconto questi fatti che condizionarono la mia vita. Semplice. Far comprendere come 40 anni fa la lotta alla mafia era demandata a polizia, carabinieri e finanza, mentre l’imbelle Stato era latitante, nel senso che non ascoltava il grido di dolore, soprattutto ad ogni funerale di colleghi o carabinieri. Mi ritrovai nella mia Palermo nel momento più funesto della sua storia, ovvero quando Riina diede inizio alla mattanza con l’uccisione di Stefano Bontade. Ricordo che intervenni nell’omicidio di Salvatore Inzerillo, poi in quello di Pio La Torre e Carlo Alberto Dalla Chiesa. Io e Beppe Montana indagammo proprio nel mio territorio di nascita, dove la tracotanza e lo strapotere di Scarpuzzedda costrinse numerosi abitanti di Ciaculli a lasciare le proprie case, trasferendosi altrove. Non godevano della sua fiducia, soprattutto dopo il mancato attentato nei suoi confronti.
Ora voglio ricordare il sacrificio di un uomo che conoscevo da tempo. Costui mi confidò che una quarantina di persone erano state “punciute” da poco: dopo le indagini ne arrestammo parecchi. Alcuni mesi dopo il blitz l’uomo fu rinvenuto cadavere, con segni di tortura e col corpo in parte bruciato. Trascorsero circa sei anni dall’omicidio e mentre assistevo Falcone all’interrogatorio di Francesco Marino Mannoia, a Roma, tra i tanti omicidi che stava svelando ci parlò di un uomo che era stato torturato e ucciso perché ritenuto un confidente di polizia. Aggiunse che un poliziotto della Mobile, del quale non conosceva il nome, aveva informato i mafiosi. Mentre lo stesso Mannoia riferiva un dettaglio del poliziotto, Falcone mi chiese: “Lo conosci?” Risposi sì.
Non fui impegnato nelle indagini, ma seppi che non furono raccolte prove sufficienti per processarlo. Mi fidavo ciecamente di quell’agente, frequentava la mia famiglia, e per me fu come una pugnalata alla schiena.
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