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Fine vita, il Vaticano ribadisce il no all’eutanasia. Ma sullo stato vegetativo “spazio alla ricerca di mediazioni legislative”

Fine vita, il Vaticano ribadisce il no all’eutanasia. Ma sullo stato vegetativo “spazio alla ricerca di mediazioni legislative”

Il Vaticano ribadisce la contrarietà all’eutanasia, spingendo invece sul ricorso alle cure palliative. Ma a proposito dello stato vegetativo parla di “uno spazio per la ricerca di mediazioni sul piano legislativo“. È la posizione della Pontificia Accademia per la Vita sul fine vita espressa in un vademecum dal titolo “Piccolo lessico del fine vita”. Parole […]

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Il Vaticano ribadisce la contrarietà all’eutanasia, spingendo invece sul ricorso alle cure palliative. Ma a proposito dello stato vegetativo parla di “uno spazio per la ricerca di mediazioni sul piano legislativo“. È la posizione della Pontificia Accademia per la Vita sul fine vita espressa in un vademecum dal titolo “Piccolo lessico del fine vita”. Parole che fanno discutere, mentre il Parlamento italiano continua a non legiferare sul tema e nonostante i continui appelli della Corte costituzionale.

L’intervento legislativo – “Nella situazione italiana”, si legge nel testo, “non si può ignorare che la sentenza della Corte costituzionale sollecita il Parlamento a colmare la lacuna legislativa rilevata in questo ambito, per di più in un contesto culturale che spinge, nei paesi occidentali, verso una deriva eutanasica. In questo quadro, far mancare il proprio apporto alla ricerca di un punto di convergenza tra differenti opinioni rischia, da una parte, di condurre a un esito più permissivo e, dall’altra, di alimentare la spinta a sottrarsi al compito di partecipare alla maturazione di un ethos condiviso“. E si aggiunge che “contribuire a individuare un punto di mediazione accettabile fra posizioni differenti è un modo per favorire un consolidamento della coesione sociale e una più ampia assunzione di responsabilità verso quei punti comuni che sono stati insieme raggiunti”.

Nel testo si ripercorre quanto avviene in alcuni Paesi e si sottolinea che “anche in Italia il codice penale punisce l’istigazione e l’aiuto al suicidio, considerandoli reati. Una recente sentenza della Corte costituzionale ha ribadito questa posizione, sottolineando l’esigenza di proteggere giuridicamente il bene della vita, soprattutto in condizioni di fragilità”, si legge ancora. “Tuttavia, la sentenza riconosce al contempo che l’evoluzione della medicina determina nuove situazioni riguardo al morire e identifica pertanto quattro condizioni in cui esclude la punibilità di chi ‘agevola l’esecuzione del proposito di suicidio autonomamente e liberamente formatosi’: la persona deve essere ‘tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevolì”.

“Per una valutazione etica – si legge nel testo – richiamiamo anzitutto la posizione del magistero della Chiesa, che ha sempre chiaramente sostenuto l’illiceità morale di questa pratica, con argomentazioni analoghe a quelle avanzate contro l’eutanasia. Si tratta quindi di un’indicazione normativa che ha il massimo rilievo sul piano personale. Su questa base, alcuni ritengono che occorra opporsi anche a qualunque soluzione legislativa che ammetta l’assistenza al suicidio – conclude -. È la prospettiva in cui si pone anche la recentissima dichiarazione ‘Dignitas infinita’, pur non impegnandosi in un approfondimento complessivo dei rapporti tra dimensione etica e soluzioni legislative. È esaminando questi rapporti che possono emergere ragioni per interrogarsi se, in determinate circostanze, possano ammettersi mediazioni sul piano giuridico in una società pluralista e democratica, in cui anche i credenti sono chiamati a partecipare alla ricerca del bene comune che la legge intende promuovere”.

Nutrizione e idratazione – Sulla sospensione della nutrizione e idratazione artificiale “pur moralmente obbligatoria in linea di principio” si può valutare caso per caso anche in base al “disagio fisico del paziente” che “evoca il criterio della proporzionalità dei trattamenti”. Nel capitolo 13, dedicato a nutrizione e idratazione artificiali, il vademecum ricorda come “le società scientifiche principali definiscono unanimemente le NIA come trattamento medico-sanitario a tutti gli effetti”. “Non si tratta pertanto di semplici procedure assistenziali e il medico è tenuto a rispettare la volontà del paziente che le rifiuti con una consapevole e informata decisione, anche anticipatamente espressa in previsione dell’eventuale perdita della capacità di esprimersi e di scegliere”, prosegue la Pav, che ricorda come la “delicatezza della questione nasce dal fatto che cibo e acqua, da una parte, sono elementi di grande valore simbolico nelle relazioni umane e, dall’altra, astenersi dal somministrarli condurrebbe a morte per fame e sete”. Quindi si specifica: “Nelle malattie in cui si protrae uno stato di incoscienza prolungato con possibilità praticamente nulle di recupero – come nel caso dello stato vegetativo permanente (SVP) -, si potrebbe sostenere che, in caso di sospensione delle NIA, la morte non sia causata dalla malattia che prosegue il suo corso, ma piuttosto dall’azione di chi le sospende”, cosa diversa rispetto alla “ventilazione assistita, che è pure un presidio di sostegno vitale, ma la cui sospensione, in condizioni particolari, non solleva obiezioni perché l’insufficienza respiratoria è parte della patologia in atto”. Si tratta però in questo caso di una “concezione riduttiva della malattia”, cioè “intesa come alterazione di una particolare funzione dell’organismo, perdendo di vista la globalità della persona” che porta a una “concezione altrettanto riduttiva della cura”.

Dunque, si legge ancora, le Nia somministrate ai pazienti sono “moralmente obbligatorie in linea di principio nella misura in cui e fino a quando dimostra di raggiungere la sua finalità propria, che consiste nel procurare l’idratazione e il nutrimento del paziente”, come chiarito dalla Congregazione per la Dottrina della Fede in una risposta alla Conferenza episcopale statunitense, sottolineando come ci siano “motivazioni eticamente legittime per sospenderla o non impiegarla quando”: 1) non più efficace dal punto di vista clinico; 2) non disponibile nel contesto sanitario considerato, 3) comporta per il paziente ‘un’eccessiva gravosità o un rilevante disagio fisico legatò”.

Il no all’eutanasia e la spinta per le cure palliative – Nell’introduzione al documento lo stesso presidente della Pontificia Accademia per la Vita, monsignor Vincenzo Paglia, ricordando la dichiarazione ‘Dignitas infinita’ spiega che “si pone su un piano eminentemente dottrinale. Possiamo anche notare come il documento non elabori una riflessione d’insieme sul rapporto tra etica e sfera giuridica. Rimane quindi aperto lo spazio per la ricerca di mediazioni sul piano legislativo, secondo il tradizionale principio delle ‘leggi imperfette'”. Nella pubblicazione si affrontano le varie tematiche collegate al fine vita. Quanto all’eutanasia si osserva che le “spinte a legalizzare l’eutanasia sollevano obiezioni mediche, culturali e legali, anche a livello del ruolo personale e sociale del medico, garante delle cure e dell’impegno a sostenere la vita dei pazienti. Per molti, un’eventuale legalizzazione dell’eutanasia porterebbe a: indebolimento della percezione sociale del valore della vita; possibilità di tragici abusi; disimpegno pubblico nell’assistenza e nell’accompagnare i morenti; concreta possibilità di scivolare verso forme di eutanasia non volontaria”.

Riguardo alle cure palliative, si sottolinea invece che “non sono ‘una medicina della rassegnazione’, ma richiedono professionalità e un approccio attivo e sempre più qualificato per una risposta completa al malato, perché si può e si deve sempre curare, anche quando non si può guarire. Accompagnare significa attivare un’assistenza che stia vicino al malato e ai suoi familiari, fino alla conclusione della sua esistenza terrena, confortando, alleviando il dolore, aiutando a confrontarsi con il ‘senso’ ‘dell’andare verso la morte. Si possono in questo modo evitare solitudine, paure, spinte indebite verso la richiesta di eutanasia o di suicidio assistito. Molto spesso, infatti, la motivazione che sostiene una tale richiesta non è la volontà di morire, ma la paura di soffrire. Occorre quindi favorire le condizioni che permettono di venire incontro a questo comprensibile timore con un’adeguata assistenza, rendendola accessibile per tutti”.

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