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Il trionfo della Street art raccontato da Vanni Santoni, nella cinquina del premio Campiello

Il trionfo della Street art raccontato da Vanni Santoni, nella cinquina del premio Campiello

foto da Quotidiani locali

Vanni Santoni scrive spesso libri di confine, in cui il romanzo sfuma nel saggio, in cui l’interesse sociale si sposa con quello più apertamente letterario, come nel caso di “Dilaga ovunque”, finalista al Campiello, in cui lo scrittore fiorentino indaga il mondo della street art.

Con “Muro di casse”, dedicato al mondo dei rave party e con “La stanza profonda” dedicato ai giochi di ruolo, il libro sembra comporre una trilogia.

«Preferisco parlare di trittico perché trilogia fa pensare a qualcosa di progettato. Dopo il libro sui “rave”, Laterza mi ha chiesto se mi interessava affrontare un’altra cultura giovanile e mi è venuto spontaneo pensare ai giochi di ruolo. In entrambi i casi si trattava di culture nate dal basso: non prodotti calati dall’alto e venduti ai giovani, ma inventati dai giovani stessi e che avevano in sé un carattere forte di autoproduzione. Di qui è venuto spontaneo arrivare alla Street Art perché ha le stesse caratteristiche: anche quella di essere stata a lungo tempo stigmatizzata e a volte criminalizzata e nonostante questo alla fine ha trionfato influenzando in modo estremamente significativo l’immaginario».

Si tratta di sottoculture?

«Io credo si possa parlare di controculture finché continuano ad avere un impatto sul mainstream, finché infastidiscono. Una controcultura è fertile se genera anche reazioni avverse, mentre si comincia a parlare di sottocultura quando in qualche modo si afferma e diventa autoreferenziale, quando diventa innocua».

Cosa che è avvenuta per la Street art.

«È un aspetto che potremmo dire paradigmatico del percorso di qualunque controcultura: in genere prima la si ignora, poi si tenta di criminalizzarla, dopodiché la si coopta o la si sussume una volta che si è capito come monetizzarla. È evidente che questo sia avvenuto alla Street art, accusata di essere vandalismo della peggior specie mentre ora le opere sono vendute nelle migliori gallerie d’arte. Prima il graffito era considerato il non plus ultra del degrado e ora gli stessi sindaci che prima chiamavano squadre specializzate per cancellare i graffiti, chiamano i graffitari e li pagano per fare i graffiti su muri di quartieri da riqualificare. Laddove c’è una contraddizione, un paradosso, c’è terreno fertile per la narrativa».

Il libro ripercorre in parte la storia della Street art, eppure non si presenta come un saggio.

«È un libro molto tematizzato, ha certamente una componente saggistica, ma può esistere solo grazie a dispositivi tipici del romanzo. Il saggista ha un obbligo di completezza che i romanzieri non hanno, perché possono prendersi delle libertà, fare una campionatura. Io seleziono alcune vicende reali ma poi posso cambiarle. Per esempio la protagonista Cristiana assiste a un battibecco del tutto immaginario tra due personaggi che chi sa leggere tra le righe riconosce come “Phase 2” e “Tracy 168”, che sono morti e io in qualche modo ho resuscitato, facendoli parlare però con le loro parole autentiche».

La protagonista, Cristiana, viene in realtà da un altro suo libro, “I Fratelli Michelangelo”. Come mai?

«Ho l’abitudine di usare personaggi che provengono da altri libri. Diciamo che mi comporto un po’ come un regista che ha i suoi attori feticcio. Se vedo che nella mia scuderia di personaggi c’è qualcuno che è adatto, lo prendo. Magari è pigrizia, però Cristiana certamente era adatta perché mi serviva una persona che avesse un passato nella Street art e che adesso lavorasse nell’arte alta, perché uno dei temi di “Dilaga ovunque” è il rapporto fra le cosiddette arti ufficiali e le arti sotterranee».

Il romanzo è narrato stranamente in seconda persona. Perché?

«L’uso della seconda persona è un dispositivo che mi porto dietro proprio da “Muro di casse” e ha caratterizzato questo trittico. Scrivendo di un movimento collettivo, anonimo mi era sembrato sbagliato usare la prima persona. Nei rave il motto era “you are the party” e così nel prologo ho usato il “tu” anche se non me la sono sentita di farlo per tutto il romanzo. Nel secondo libro ho esteso l’uso del tu e ho constatato che per quanto inusuale non creava problemi al lettore. Per questo è venuto naturale usarlo anche questa volta».

Più degli altri romanzi del trittico questo è anche un libro politico.

«Non ci avevo pensato all’inizio, ma poi mi sono accorto che affrontare il mondo dei graffiti e della Street art senza avere almeno un piccolo livello di lettura politico sarebbe stato ipocrita. Parlare di graffiti mi permetteva di avere un punto di vista diagonale per affrontare il tema dello spazio pubblico e della sua progressiva riduzione. Oggi lo spazio pubblico viene sempre più privatizzato, viene sempre più monetizzato, viene sempre più ridotto. Nella mia città ha fatto scalpore quando non molto tempo fa è stato proibito di sedersi sul sagrato della Chiesa di Santo Spirito, dove i fiorentini si siedono da circa 500 anni. È chiaro che nel momento in cui accade questo la città perde una parte della propria anima, perché la polis nasce per definizione anche come luogo in cui i cittadini possono incontrarsi, sostare».

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