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Il sistema penitenziario italiano è una polveriera pronta a esplodere. Come se ne esce?

Il sistema penitenziario italiano è una polveriera pronta a esplodere. Come se ne esce?

Nelle carceri c’è una grande tensione e da nord a sud le persone detenute protestano. Il sistema penitenziario italiano è una polveriera pronta a esplodere. Come ne usciamo? Proviamo a capire quel che sta accadendo. Certo la soluzione non può essere quella di alzare il livello dello scontro, parlare di rivolte e non di proteste, […]

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Nelle carceri c’è una grande tensione e da nord a sud le persone detenute protestano. Il sistema penitenziario italiano è una polveriera pronta a esplodere. Come ne usciamo? Proviamo a capire quel che sta accadendo. Certo la soluzione non può essere quella di alzare il livello dello scontro, parlare di rivolte e non di proteste, affermare che lo scopo sarebbe quello di un’evasione di massa, non ascoltare quello che i detenuti stanno chiedendo e non aprire un dialogo con loro.

In carcere ci sono tante, troppe persone. E non perché i posti disponibili siano pochi, ma perché la gente che ci mettiamo dentro è troppa. Hai voglia a costruire nuove galere (impresa peraltro finanziariamente ardita e che si è storicamente dimostrata inarrivabile): se continuiamo a usare il carcere come unica soluzione ai problemi della società, continueremo a riempirle in un istante e non ci basteranno mai. Oggi le carceri sono grandemente sovraffollate. Le carceri per adulti e quelle per minori, cosa senza precedenti nella storia. In alcune vivono il doppio delle persone rispetto ai posti. Si sta appiccicati in cella, con un caldo che non si respira, con la terza branda che sfiora il soffitto, con un unico bagno, con i fornelletti per cucinare accanto al water, a volte con le blatte nei materassi, a volte senz’acqua corrente, a volte con le finestre schermate che non lasciano passare aria. Protestare, quando si vive in queste condizioni contrarie a ogni dignità, è più che legittimo.

Anche le carceri minorili sono sovraffollate. Le nuove norme introdotte dal Governo con il Decreto Caivano hanno portato a un’impennata delle presenze. La giustizia minorile italiana, che tradizionalmente puntava su un approccio educativo e non segregativo verso il ragazzo autore di reato, è stravolta nelle sue fondamenta. Nei giorni scorsi i ragazzi detenuti hanno praticamente distrutto il carcere minorile di Torino. Aspettiamo che le inchieste facciano il loro corso per comprendere meglio l’accaduto. Ma non possiamo non guardare di che ragazzi stiamo parlando. Non per giustificarli, ma per comprendere la realtà.

Innanzitutto l’istituto ospitava per i tre quarti ragazzi minorenni. Ragazzini con i quali adulti numerosi e addestrati dovrebbero saper trattare. Ma, soprattutto, la stragrande maggioranza era composta da ragazzi stranieri, quasi sempre minori non accompagnati. Stiamo parlando di ragazzi che, poco più che bambini, hanno lasciato padri, madri, fratelli, sorelle e hanno affrontato quel viaggio drammatico che ben conosciamo. Sono arrivati da soli sul territorio italiano, dove la nostra società ha pensato bene di smantellare ogni forma di accoglienza per loro. Costretti a vivere per strada, è quasi impossibile che non incontrino le dipendenze (prima tra tutte dagli psicofarmaci a basso costo che si vendono per strada a fini di sballo) e il carcere. Ragazzini con un vissuto tragico alle spalle, che avrebbero avuto bisogno di ogni sostegno, di ogni aiuto, di ogni comprensione e che noi sbattiamo in una cella appena compiuti i quattordici anni. E, visto che sono troppi, li facciamo pure dormire per terra. Continuando inoltre a riempirli di farmaci in modo da neutralizzarli, con conseguenti aggressività e crisi di astinenza quando finisce l’effetto. Nessun futuro per loro, nessuna speranza. Questa è oggi la realtà delle carceri minorili italiane.

E nessuna speranza si intravede anche nelle carceri degli adulti. Al sovraffollamento e alle ignobili condizioni igieniche si sommano scelte scellerate sulla vita interna. Subito dopo la condanna dell’Italia da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nell’ormai lontano gennaio 2013, una provvidenziale disposizione amministrativa decretò che le porte delle celle dovessero rimanere aperte per almeno otto ore al giorno, cosicché le persone potessero venire impegnate in significative attività diurne e tornare in stanza per il solo pernottamento. L’organizzazione di significative attività è stata purtroppo sempre carente, ma quantomeno si poteva girare per la sezione e avere a disposizione un po’ più di spazio vitale.

Su questo, senza alcun motivo, si è deciso di tornare indietro. Oggi le celle sono chiuse per la stragrande maggioranza delle persone detenute, che possono recarsi ai passeggi (spesso piccoli cubicoli di cemento arroventato e senza nessun arredo) per le quattro ore d’aria previste dalla legge, mentre per le restanti venti sono costrette a vivere nello scenario che ho appena descritto. Protestare, quando si vive in queste condizioni inumane e degradanti e non si comprende il motivo di una scelta che ci fa tornare indietro senza senso, è legittimo. Alcuni sindacati autonomi di polizia penitenziaria si sono battuti per richiudere le porte delle celle, sostenendo che le disposizioni del 2013 portassero a un carcere fuori controllo e sovversivo. Ma la realtà sotto gli occhi di tutti è che per dieci anni non abbiamo avuto le proteste – teniamo fuori l’8 marzo 2020 e l’avvento del Covid, che è un’altra storia e dove comunque non si è mai dimostrata una regia esterna nelle proteste – che abbiamo oggi con le celle chiuse.

Le vessazioni inutili non si fermano qui. Con l’esplosione della pandemia e la chiusura dei colloqui con le famiglie, si estese la possibilità di contatti telefonici fino a una telefonata al giorno. Questa prassi restò in vigore per un po’ anche quando le visite in presenza erano ormai riprese. A un certo punto, dal nulla, si è deciso di imporre il ritorno alle previsioni normative precedenti, ovvero una telefonata a settimana di soli dieci minuti. Ma perché? Una volta che la situazione emergenziale aveva fatto constatare che la gestione organizzativa delle telefonate quotidiane era tutto sommato fattibile, perché tornare indietro?

Il regolamento penitenziario risale a 24 anni fa. Nel frattempo è cambiato il mondo, la tecnologia è esplosa. Perché lasciare indietro il carcere? Perché tornare a una sola, breve telefonata settimanale con i propri cari, se non per un’idea vendicativa della pena? Una telefonata, in un momento di sconforto, può salvare una vita. E purtroppo stiamo assistendo a una strage di suicidi che si va compiendo nelle patrie galere.

E potrei continuare a raccontare scelte legislative e amministrative sciocche, rancorose, inutili, frutto di una concezione della pena che non ha nulla a che fare con quella costituzionalmente orientata. Gli ultimi anni di gestione penale e penitenziaria hanno portato il sistema sull’orlo del collasso, come mai era successo prima nella storia repubblicana. In questa situazione, il recente decreto legge sulle carceri ha preso misure del tutto insufficienti. Ora si può scegliere la strada da intraprendere: si può tornare sui propri passi, ammettendo la gestione fallimentare e prendendo misure adeguate. Oppure si può insistere nella disumanità, continuando a contare i morti, chiudendo gli occhi di fronte alle condizioni ignobili in cui vivono i detenuti e dicendo in giro che essi organizzano insurrezioni e sommosse senza motivo.

E allora si vorrà anche dire che non resta altro che votare al più presto il reato di rivolta penitenziaria, che adesso è pendente in Parlamento e che punisce fino a otto anni di carcere anche chi passivamente e pacificamente fa resistenza a un ordine impartito. Seppelliremo l’intera popolazione carceraria sotto altri cumuli di pena. Poi qualcosa accadrà. Non riesco a immaginare cosa. Non riesco a immaginare come finirà questa storia, perché niente di così drammatico c’era mai stato prima.

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