“Contatto visivo ravvicinato, preparatevi al soccorso”. Come lavora la nave di Emergency nel Mediterraneo. Videoracconto di 12 giorni a bordo
Nelle scorse settimane un giornalista de Ilfattoquotidiano.it è stato a bordo della nave Life Support di Emergency impegnata nella sua 22esima missione nel mediterraneo centrale. E ha documentato con una serie di video e articoli le fasi di preparazione dello staff e le operazioni di soccorso in mare.
“Fuori era tutto buio, le onde erano alte. Passavo il tempo a provare a tirare fuori l’acqua con le mani dallo scafo, credevo di morire, ma poi ho visto la luce della nave, pensavo fosse un sogno”. O. ha 24 anni, arriva dall’Egitto. È stato soccorso insieme ad altre 40 persone in una notte di fine luglio nel Mediterraneo centrale dalla Life Support, la nave di ricerca e soccorso di Emergency. Una missione che ilfattoquotidiano.it ha raccontato in presa diretta stando a bordo per dodici giorni.
“Qui nulla è lasciato al caso” spiega l’ex ufficiale di marina Flavio Catalano che gestisce il ponte della nave. Per questo ogni giorno ci si prepara con briefing teorici, esercitazioni pratiche e analisi dei video delle missioni precedenti. Ci si allena a reagire di fronte a tutti gli scenari possibili. Dalla rianimazione di persone che non respirano al recupero di cadaveri sulla barca. Da come comportarsi di fronte alla guardia costiera libica a cosa fare in caso di persone che si buttano in acqua. Nel Mediterraneo centrale può accadere di tutto. E ogni secondo diventa fondamentale. Il motivo? “Bastano pochi secondi per annegare o per essere respinti in Libia – spiega Jonathan Nanì La Terra, soccorritore del team Sar – per questo ci prepariamo continuamente. Per riuscire a portare in salvo i naufraghi”. Dal dicembre 2022, la ong ha salvato 1897 persone. “Ma dietro a quei numeri ci sono uomini, donne e bambini” racconta il comandante Domenico Pugliese. Storie come quelle di O. che faceva l’operaio in Egitto e ha lasciato una moglie incinta di tre mesi per provare a raggiungere l’Europa. “Ci ho provato tre volte, ma questa è stata quella buona. Lo faccio per dare un futuro a mio figlio”.
Non tutti ce la fanno però. Negli ultimi dieci anni nel Mediterraneo sono morte trentamila persone. E nelle acque internazionali della zona Sar libica sono rimaste quasi solo le navi delle ong a presidiare quel pezzo di mare. “Non facciamo solo ricerca e soccorso – racconta La Terra – ma siamo anche tra i pochi testimoni di quello che accade in quell’area”. Un pezzo di Mediterraneo dove sono attive le navi della guardia costiera libica e delle milizie libiche pronte a interferire con le operazioni di soccorso (talvolta anche con spari) e a riportare indietro le persone.
Nei primi sette mesi del 2024 sono state intercettate e riportate in Libia 12mila persone (secondo i dati Iom Lybia). Ma per spiegare che cosa vuol dire vivere da migrante in Libia basta ascoltare le testimonianza delle persone soccorse in mare. “Le condizioni delle prigioni libiche non sono umane” racconta Y., siriano. Arriva dalla Siria. È scappato dal suo paese a causa dalla guerra. E dopo aver raggiunto la Libia, per tre volte ha provato ad attraversare il Mediterraneo. Ma per tre volte è stato respinto e riportato sulle coste libiche. Ha vissuto un anno e tre mesi in Libia. E più volte è stato imprigionato per il solo fatto di essere un migrante. “Bevevamo l’acqua da terra perché non ce ne davano. Ci davano mezzo pezzo di formaggio e un pezzo di pane al giorno. Giusto per non morire di fame. A volte sparavano in aria con i kalashnikov per farci capire che potevano spararci quando volevano. Ci trattavano come animali”
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