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La vita accanto, il film di Marco Tullio Giordana da mercoledì in regione

“La vita accanto” , con Sonia Bergamasco, Valentina Billè, Paolo Pierobon e le straordinarie giovani attrici e pianiste, è un cinema elegante che risale dalla letteratura in due fasi: prima con la libertà d’intravedere nuove modalità sceniche attraverso la sceneggiatura di Marco Bellocchio (assieme a Gloria Malatesta) e, quindi, con la sensibilità propria di un regista come Marco Tullio Giordana al quale l’autore del cult “I pugni in tasca” e di “Bella addormentata” affidò con fiducia il lavoro.

«L’avrei girato io, poi sopraggiunsero altri progetti. Te lo consegno perché so che tu lo farai magnificamente questo film», disse Bellocchio a Marco Tullio, regista acclamato pochi giorni fa al Festival di Locarno 77, vincitore del Pardo d’oro alla carriera quarantaquattro anni dopo il suo primo successo: “Maledetti vi amerò”.

L’autore de “La meglio gioventù” e di “Pasolini, un delitto italiano”, fra le tante opere che ha diretto, sarà in Friuli per un mini tour promozionale di tre giorni: mercoledì 21, alle 21, in Largo San Giorgio a Pordenone ospite di Cinemazero, il 22 al Giardino Loris Fortuna di Udine alle 21.15 (a cura del Visionario) e venerdì 23, alle 20, al Kinemax di Gorizia.

Giordana, l’assist del collega Bellocchio è stato utile per andare trionfalmente sul grande schermo?

«Sicuramente questa vicenda familiare mi stimolò immaginazione. Bellocchio, va detto, ebbe l’intuizione, a mio parere geniale, di far virare la storia verso una modalità più cortese rispetto a quella forte del bel libro di Mariapia Veladiano. Nasce una bimba con un difetto importante: un’estesa macchia rossa sul viso. Inizialmente la neonata è vissuta molto male dalla madre sposata con un medico di una dinastia borghese della Vicenza bene. Ormai le nostre difformità ci fanno sentire inadeguati. E cerchiamo di intervenire quando si può. Il nostro corpo è diventato un campo di battaglia. Il film è anche una metafora su questa perenne insoddisfazione».

Dubbi iniziali appena prima del ciak?

«Uno in realtà c’era, ma fortunatamente lo eliminai presto. “Chi produce il film?”, chiesi a Marco sperando in una risposta sicura, che arrivò puntuale. “Te lo produco io”, mi rispose lui e ne fui felice. Avere un produttore artista è un gran vantaggio perché sa cogliere le esigenze di chi fa il tuo stesso mestiere. Io credo di essere un regista abbastanza disciplinato, non perdo tempo e, soprattutto, non spendo una lira in più. Però non lascio resti. Ciò mi ha consentito di uscire dai set col sorriso, mai una litigata».

Avrà un buon carattere, suppongo?

«Al contrario. Il mio è pessimo. Dico abitualmente ciò che penso e non finisco mai intrappolato dagli ingranaggi della menzogna. Lo trovo rilassante come atteggiamento, nessun rospo sullo stomaco».

Senta Marco Tullio, nella sua filmografia sono presenti molte opere legatissime alla realtà: “I cento passi”, “La meglio gioventù”, si diceva Pasolini, “Romanzo di una strage” su piazza Fontana, “Yara”… Non ama molto la commedia?

«L’elemento storico è centrale, vero, ma pure il lavoro sui personaggi è fondamentale per me, un comparto dove spendo davvero tante energie. Qui apparentemente è assente il passato inteso come avvenimento, però ho cercato la decisa identità dei protagonisti affinché ci si possa riconoscere in loro. Trovo importante il dialogo intimo con la platea».

Restando ancora per un attimo dentro il cast: tutte le tre interpreti di Rebecca siedono davanti a un pianoforte e lo suonano veramente. Un evento raro. Di solito assistiamo a finzioni talvolta davvero ridicole.

«Mi fa piacere che se ne sia accorto. Non amo affatto mettere cerotti alle scene. Ho bisogno di un cantante? L’attore deve saper cantare. Mi serve un ballerino? L’attore deve saper ballare bene. Non sopporto le controfigure. E, aggiungo, mi piace scovare giovani talenti, come la Rebecca bimba e l’amica Lucilla in uno strepitoso dialogo adulto e la bravissima Beatrice Barison al suo debutto nel cinema».

Bisogna ammettere che il titolo “La meglio gioventù” è diventato ormai un modo di dire.

«Sono sincero: non è mio. L’ho scovato in uno scritto di Pier Paolo Pasolini che, a sua volta, riporta una canzone degli alpini della brigata Julia: “La meglio gioventù va sotto tera” con una erre, dice il testo. E me ne innamorai».

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