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Riforma dell’università, la rabbia dei ricercatori padovani: «Aumenterà il precariato»

Sono circa 3.600 le ricercatrici e i ricercatori padovani interessati dalla riforma universitaria Bernini. Un provvedimento bocciato da sindacati e coordinamenti padovani. Secondo Corda, il coordinamento che riunisce i precari della ricerca, il provvedimento «segmenta ulteriormente la forza lavoro universitaria, comprimendone i diritti, ricattandola in nome di un’immediata sostituibilità, mantenendola in uno stato di precarietà, anche emotiva, che può durare spesso oltre dieci anni, con i primi contratti indeterminati dopo i 40 anni d’età». Il prorettore al dottorato e post lauream, Massimiliano Zattin, assicura tuttavia che «il Ministero ha promesso una ridiscussione della riforma sulla base degli input che riceverà dalle università: la rettrice Mapelli si sta già mobilitando per raccoglierli».

La riforma

Con il disegno di legge di riforma, che è stato approvato dal Consiglio dei ministri e che verrà discusso in Parlamento in autunno, ai contratti di ricerca si affiancheranno cinque nuove forme contrattuali: borse per collaborazioni studentesche, contratti di assistenza alla ricerca (junior per laureati e senior per chi è in possesso di dottorato), contratti post-doc e professori aggiunti. «Una vera e propria “cassetta degli attrezzi” a disposizione delle università», come ha confermato la stessa Bernini. «Tutte forme di reclutamento che riportano ricercatori e ricercatrici in un limbo contrattuale in cui continuano a barcamenarsi tra contratti di breve durata che diventano sempre più numerosi» sostiene Corda «la riforma, dunque, a nostro avviso, fornisce agli atenei gli strumenti per scaricare i costi della ricerca sulla popolazione più debole, quella formata da ricercatrici e ricercatori».

Parole queste a cui fanno eco quelle del segretario regionale della Flc Cgil con delega all’università, Tiziano Bresolin, che è anche tecnico al Bo: «Siamo assolutamente critici rispetto al disegno di legge, che va nella direzione opposta a quella su cui il governo Draghi stava lavorando» dice Bresolin «con questa riforma possiamo parlare di un vero e proprio sfruttamento del sapere di professionisti della ricerca che verranno privati, ulteriormente, dei propri diritti di lavoratrici e lavoratori».

Secondo Zattin, invece, è ancora presto per trarre le conclusioni. «Non sappiamo ancora se è una riforma che peggiorerà la situazione attuale, perché gli importi dei contratti non sono stati ancora definiti in quanto saranno decisi dal Ministero» dice il prorettore «prima di esprimerci con chiarezza attenderemo il quadro definitivo con le cifre».

Precariato senza fine

Secondo il coordinamento delle precarie e dei precari «tutto questo avrà degli effetti concreti in un’università caratterizzata da sottofinanziamento e mancanza di programmazione dei reclutamenti. Ricercatrici e ricercatori, una volta finito il dottorato, inizieranno un lunghissimo tunnel di precarietà e di insicurezza lavorativa, senza nessuna garanzia sulla possibilità, alla fine di questo periodo, di poter davvero accedere a una posizione lavorativa stabile in università».

La carriera accademica, sottolineano infatti i diretti interessati, potrà iniziare con una borsa di ricerca, poi con un contratto post-doc, poi – se si riesce a rimanere all’interno del mondo accademico – si potrà accedere al contratto di ricerca, oppure, in mancanza di fondi, si tornerà indietro, sottoscrivendo una nuova borsa. «Un perenne gioco dell’oca in cui la propria carriera è costantemente sottoposta a imprevisti ed eventi su cui non si ha capacità di intervenire».

Anche secondo Bresolin la moltiplicazione delle forme contrattuali prevista dalla riforma comporterà un precariato senza una fine certa. «In questo modo si allontana sempre di più la possibilità della stabilizzazione, che in Italia avviene già dopo i 40 anni, che è già di per sé una cosa assurda» precisa infatti il sindacalista.

I timori

«In questo quadro il futuro ci appare molto fosco» dicono dal coordinamento dei precari. In aggiunta, in un recente decreto, la ministra Bernini ha annunciato un taglio di 500 milioni di euro al Fondo di Finanziamento ordinario dell’università, il principale stanziamento per le attività didattiche e di ricerca e per il funzionamento degli atenei.

«Significa che nelle casse dell’Università di Padova entreranno circa 24 milioni di euro in meno, il che comporterà tagli» spiega Bresolin «e il Bo ha comunque una notevole capacità economica che gli permetterà di reggere l’urto. Anche se c’è da domandarsi se riuscirà a mantenere tutte le misure in favore della comunità studentesca che ha portato avanti nel corso degli ultimi anni. Mi domando, poi, come affronteranno questi tagli tutte quelle università più piccole e con meno potere economico».

«Non solo vediamo all’orizzonte crescere il sottofinanziamento dell’università italiana, ma sembra che questo sia inserito in un programma di riforma che ridisegnerà il mondo accademico italiano istituzionalizzando le forme di precarietà, riducendo le ambizioni della ricerca italiana, ampliando le diseguaglianze tra atenei che riescono a rimanere a galla e università che invece affondano» aggiunge il coordinamento facendo una disamina dello stato di salute dell’università in Italia «in poche parole, un’università più povera, più piccola, più diseguale».

La risposta

Di fronte a un presente difficile e a un futuro estremamente incerto, però, i precari della ricerca non intendono arrendersi. Per questo stanno organizzando una serie di iniziative volte a fare informazione sulle conseguenze della riforma e in preparazione di una mobilitazione. «Dobbiamo immaginare tutte le iniziative utili a invertire la rotta: senza condizioni di lavoro dignitose non può esserci lavoro di ricerca. Il tutto ovviamente cercando la più ampia convergenza con le altre organizzazioni che si battono per condizioni di lavoro degne dentro e fuori le aule universitarie». Anche il sindacato, spiega Bresolin, sta preparando una mobilitazione: «Dobbiamo mettere in campo tutte le nostre forza: parliamo non solo del futuro delle università e di chi ci lavora dentro, ma anche, più in generale, del futuro del diritto all’istruzione»

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