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Convention del Partito democratico: la rischiosa scelta di mettere all’angolo la questione palestinese

Sono i giorni della convention del Partito Democratico, a Chicago, che quest’anno ha il compito primario di indicare in Kamala Harris il candidato alla Casa Bianca al posto del presidente in carica, Joe Biden. Non bastano le lacrime cerimoniose dello stesso Biden e ancor meno i discorsi e gli slogan alquanto hollywoodiani di Barack e Michelle Obama per cancellare l’aura di augusta mediocrità e preoccupante ignavia di un’amministrazione che finge di non vedere le proteste corpose che le si agitano intorno.

Se nel 1968 a scombussolare la convention fu il malcontento  dei dimostranti anti-Vietnam, duramente represso dalla polizia, quest’anno a tenere banco sono le richieste di molti cittadini che pretendono un cambio di atteggiamento nei confronti della guerra in Medio Oriente: nella zona di Chicago vive una percentuale elevata di americani di origine palestinese e ignorarne le istanze potrebbe essere una mossa azzardata persino per un Partito Democratico a cui, tutto sommato, della sorte di Gaza e di milioni di innocenti non frega granché, tutto avvitato com’è intorno alla battaglia anti-Trump e alle preoccupazioni sullo stato dell’economia.

Oggi più che mai schierarsi dalla parte dei deboli, degli oppressi e di chi non ha voce in capitolo è la via più semplice per attirarsi antipatie che sfociano in veri e propri epiteti. Lo è in USA, dove l’appoggio incondizionato che il paese assicura al suo più fedele alleato, Israele, non ammette obiezioni e ipotesi alternative e lo sta diventando ancor più in Europa, dove il sostegno a Israele rischia di affossare ogni dissidenza, creando un sempre più pericoloso pensiero unico, una crociata Occidente-Oriente che cela le difficoltà statunitensi a imporre la pax americana sul pianeta dietro un ormai ridicolo paravento religioso.

Io stesso mi sono visto tacciare di antisemitismo per aver preso posizione. Una posizione che rivendico: dopo che, nei giorni scorsi, Israele ha dichiarato di aver “eliminato” 20.000 “terroristi”, sorge spontaneo chiedersi contro chi stia combattendo questa guerra. A mia memoria, non è mai esistita un’organizzazione terroristica che vantasse più di qualche centinaio di militanti a dir molto. E se quei “terroristi” terroristi non fossero? Da sempre, il più forte chiama terrorista chi si oppone con i mezzi a sua disposizione a quelle che ritiene inaccettabili imposizioni. La narrazione da noi è unilaterale: gli israeliani sono soldati, i membri di Hamas sono terroristi; i palestinesi senza vita sono morti, gli israeliani sono stati uccisi. E qual è, dunque, la formula inoppugnabile per marchiare qualcuno di terrorismo? Inoltre, se sono già 20.000 i “terroristi” eliminati da Israele, ci si è chiesti se, in realtà, ogni uomo (e persino ogni ragazzino) di Gaza non sia un potenziale miliziano e se, dunque, il paese con la stella di Davide non stia combattendo contro un popolo intero, un popolo umiliato, ghettizzato, segregato?

Non so se davvero Hamas si attendesse da parte di Israele una reazione spropositata agli attacchi del 7 ottobre quale quella a cui stiamo assistendo tuttora. Forse se l’aspettava, forse no. Forse una reazione forte era esattamente ciò che desiderava per riportare la questione palestinese sulla ribalta internazionale. Sappiamo a qual prezzo per il popolo palestinese. La reazione di Netanyahu e dei vertici israeliani non può essere una sorpresa. Eppure, la sua portata qualche insoddisfazione tra gli alleati deve averla suscitata. Sappiamo tutti quanto Netanyahu abbia stizzito Joe Biden nei giorni precedenti il suo fatidico passo indietro. Ma sappiamo pure che si è trattato di un’arrabbiatura di facciata, testimoniata dalla conferma di ingentissimi aiuti militari a Israele e da dichiarazioni che ribadiscono ostinatamente un appoggio senza se e senza ma alle decisioni militari di Tel Aviv.

Le negoziazioni in corso a Doha fin dal principio hanno mostrato la corda. Si è capito subito che l’ostinazione di Netanyahu e l’intransigenza di Hamas – e pure in questa scelta di termini si tocca con mano lo sbilanciamento dell’informazione – non sarebbero state terreno fertile per risultati tangibili. Solo l’ottimismo senile di Biden, più che altro una patetica ostentazione, ha provato a far vacillare quel muro di negatività: il vecchio e stanco presidente americano sperava in un uscita di scena con un successo diplomatico epocale (in verità, almeno in linea teorica, tuttora possibile), ma la non-disponibilità di Netanyahu a far cessare l’occupazione militare israeliana di Gaza e il secco rifiuto di Hamas di restituire gli ostaggi restanti spingono a maggior realismo. È di pochi minuti fa la notizia secondo cui il nuovo leader designato di Hamas avrebbe chiesto, come pre-requisito per l’avanzamento dei primi negoziati di pace, la garanzia che Israele non tenterà di fargli la pelle. A quello si è ridotto il mondo: chi ha veramente il diritto di far ricorso all’omicidio mirato di stato per risolvere un problema?

Nel frattempo, la quota apocalittica di oltre 40.000 palestinesi morti ufficialmente – ce ne sarebbero ancora molti altri sotto le macerie – dovrebbe essere una chiamata universale all’unità di un mondo che abbia a cuore un minimo di decenza umana. Esiste un limite invalicabile alla violenza oppure vale tutto? Quand’è che l’animo umano non può più tollerare la mattanza? Domande in prima istanza da fare a Netanyahu e agli USA suoi sodali, ma assistere a un tale scempio senza far sentire la nostra voce ci rende altrettanto complici.

A giudicare dalla timidezza delle parole espresse da Kamala Harris sulla questione Gaza, giorni durissimi attendono la povera gente che ci vive e tempi ancor più vergognosi si prospettano per la doppia morale dell’Occidente.

Sperare nelle richieste di un manipolo di dimostranti eredi dei figli dei fiori di Chicago del 1968 pare una chimera. Ma resta poco altro da fare.

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