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Il Tfr nei fondi? Ecco cosa succede se la legge sarà approvata

Il testo proposto della Lega per rendere obbligatorio il trasferimento del 25% del Tfr alla previdenza integrativa è pronto. L’obiettivo della misura è quello di garantire soprattutto ai giovani lavoratori pensioni migliori. La bozza dell’iniziativa voluta dai sottosegretari Claudio Durigon e Federico Freni sarà discussa già la settimana prossima al tavolo del Mef voluto dal ministro Giancarlo Giorgetti per discutere della manovra 2025 da circa 25 miliardi di euro. Oltre alla quota di Tfr da versare obbligatoriamente, resterebbe comunque possibile la contribuzione volontaria da parte del singolo lavoratore o del datore di lavoro. Non solo: il ministro del Lavoro e delle politiche sociali, Marina Elvira Calderone, ha anche pensato di riaprire «un semestre di silenzio assenso» nel quale spetterebbe ai lavoratori comunicare la propria decisione in merito a dove collocare i fondi del proprio trattamento di fine rapporto.

Se, dunque, la norma dovesse diventare legge, cosa succederebbe? Ogni lavoratore vedrebbe sulla propria busta paga una somma trattenuta che finirebbe inevitabilmente in un fondo pensione di categoria o in uno di quelli aperti disponibili a tutti sul mercato. Certo, i dubbi non mancano. Se da un lato è vero che, così facendo, si finirebbe per avere una pensione più cospicua, dall’altro è anche vero che i lavoratori sarebbero obbligati a non utilizzare per altri scopi la somma maturata per il Tfr. Va ricordato, infatti, che il trattamento di fine rapporto è una parte della retribuzione che viene chiamata «differita» poiché viene elargita solo alla fine del rapporto di lavoro. L’importo ovviamente non è uguale per tutti, poiché legato alla retribuzione globale di fatto, posta di solito nella parte alta del Cedolino. Il professor Alberto Brambilla, esperto di sistemi pensionistici e presidente del centro studi e ricerche Itinerari previdenziali, parlando con La Verità ha sostenuto che «non è costituzionale imporre a un lavoratore di impegnare parte della sua retribuzione in un fondo pensione. L’adesione alla previdenza integrativa non può che essere volontaria».

Per capirsi su quello che potrebbe trovarsi un lavoratore all’interno del cedolino, basta fare un esempio. Ammettiamo che un lavoratore metalmeccanico accantoni ogni mese 100 euro di Tfr. In caso di attuazione della proposta della Lega, 75 euro finirebbero (come già avviene oggi per chi non ha aderito alla previdenza complementare) nel Tfr, gli altri 25 andrebbero come quota trattenuta per il fondo pensione, sia questo di categoria o aperto. Chiaramente, è bene ricordarlo, al termine del rapporto di lavoro verrebbe versato solo l’accantonamento complessivo della quota Tfr mensile, tutto quello che insomma non è andato nel fondo pensione. Va, però, evidenziato che l’iniziativa proposta dalla Lega è essenzialmente rivolta ai dipendenti del settore private che trattengono il loro Tfr in azienda. Nel caso dei lavoratori del pubblico impiego, infatti, le somme in questione vengono gestite dall’Inps e non è ancora chiaro come in questo caso potrebbe essere attuata la norma ideata dalla Lega.

Quello che è certo è che, di norma, affidarsi a un fondo pensione complementare nell’arco di una carriera rende sempre di più rispetto a lasciare il Tfr in azienda. Secondo i dati diffusi mensilmente da Bff banking group, il primo semestre si è concluso in modo complessivamente positivo per i fondi pensione distribuiti in Italia, con i negoziali che a giugno si sono apprezzati dello 0,7% in base all’indice Bff-Ml generale e gli aperti che sono cresciuti dell’1% secondo l’indice Bff generale. I rendimenti sono stati trainati al rialzo dai comparti azionari (+2,7% i negoziali e +2,5% quelli aperti) e bilanciati azionari (+1,6% i e +1,8%), mentre hanno frenato i fondi pensione monetari (-0,3% e - 0,1%) e gli obbligazionari (-0,2% e -0,1%).

Il problema è che le piccole e medie imprese italiane, la gran parte di quelle presenti sul territorio, preferisce tenere il Tfr in azienda perché quei fondi vengono utilizzati dalle aziende stesse per reperire materiali o pagare i dipendenti. «Se oggi andiamo a vedere i livelli di adesione ai fondi pensione, scopriamo che le aziende grandi, quelle oltre i 100 dipendenti, hanno dei tassi di adesione molto alti, anche superiori all’80%, mentre le aziende fino a 49 dipendenti hanno dei tassi di adesione molto bassi proprio per il motivo del Tfr», ricorda Brambilla. Per questo deve essere una priorità del governo scardinare questo meccanismo in modo da mettere il turbo alla pensione complementare. Tra il 2022 e il 2023 il numero degli iscritti alla pensione privata è salito del 3,7%, in media con gli ultimi cinque anni, ma a un ritmo ancora troppo basso per vedere un aumento significativo degli assegni previdenziali di molti italiani.

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