La storie dei veneziani espatriati: «All’estero ci misurano soltanto sul valore»
I dati li ha messi in fila la Fondazione Nord Est, anche se girando per Venezia e sentendo le parole di chi l’ha lasciata, la questione è chiara senza bisogno di numeri.
Le opportunità di lavoro sono viziate dalla presenza del turismo e, per certe professioni, la soluzione diventa andare altrove. E c’è chi, sulla spinta degli studi per scoprire il mondo, non è più tornato indietro.
Secondo l’analisi di Fondazione Nord Est, che si è tradotta nel volume “I giovani e la scelta di trasferirsi all’estero. Propensione e motivazione”, da poco in libreria.
In sintesi, il quadro è di giovani che cercano stipendi migliori, ma anche la possibilità di accedere da subito a incarichi di responsabilità, così come un mercato del lavoro che si basi davvero sul merito.
«A certi livelli è impossibile trovare lavoro in Italia senza uscirne», dice infatti Francesco La Porta, 34 anni, lidense trapiantato prima a Londra, poi a Parigi, «il problema è dell’ecosistema lavoro italiano, dove non viene premiato il merito ma permane una barriera legata all’età». Non sono voci isolate: secondo i numeri elaborati dall’Istat sulla base delle iscrizioni e delle cancellazioni all’anagrafe, dal 2011 al 2021 il numero di italiani che si è trasferito all’estero è cresciuto sempre di più, passando dai 50 mila l’anno di inizio periodo a oltre 120 mila. Dopo la frenata del 2021 causata dal Covid, già nel 2022 gli espatri sono tornati a salire (più 5,6 per cento).
Stella Piva si è spostata da Mestre a Dubai, dove si è trasferita da sette mesi dopo dieci anni londinesi: lavora nel campo immobiliare. Tornerà in Italia? «Questa tipologia di opportunità non esistono in Italia, essendo fuori da tanto quando torno mi rendo conto che poco è cambiato nel mio Paese, non ci vedrei», sottolinea, «Il campo immobiliare qui è davvero imparagonabile a quello italiano. La mia agenzia ha appena venduto un appartamento da 80 milioni di Dirham, solo per fare un esempio».
L’aspetto più drammatico riguarda proprio i giovani: dal 2011 al 2020 sono andate via oltre 451 mila persone tra i 18 e i 34 anni, il 4,4 per cento della popolazione dei pari età.
Sempre nei dieci anni considerati, sono andati via oltre 124 mila giovani dal Nord Ovest e oltre 91 mila dal Nord Est, il 4,6 per cento dei pari età. Se nel 2011 il 45 per cento degli espatriati aveva tra i 30 e i 34 anni, ora il 26 per cento sono spesso studenti (18-24 anni), mentre il 43 per cento è rappresentato da quei giovani già formati che vanno all’estero per lavorare (25-29 anni).
L’altro punto da mettere sotto la lente, è che dal 2011 al 2021 dalle regioni del Nord Italia oltre 127 mila giovani sono volati verso Belgio, Francia, Germania, Olanda, Svizzera e Regno Unito, i sei Paesi preferiti da chi espatria. Da quegli stessi Paesi, però, sono arrivati nel Nord Italia soltanto 17 mila giovani, un rapporto di sette a uno. Un dato che mostra la scarsa attrattività del mercato del lavoro, a dispetto della presenza di tante imprese.
Questo tema emerge dalle storie di chi vive all’estero, come Emanuele Orrù, veneziano cresciuto a Mestre, che ha studiato Medicina e si è specializzato a Padova, per poi volare e restare negli Stati Uniti: «Le trasformazioni partono da qui, c’è intraprendenza e voglia di rischiare, in Italia non le vedo», afferma Orrù, «qui le persone sono pronte a fallire. Si lavora, non ci si dà per vinti».
Chi non si è mai perso d’animo ma sin da subito ha puntato sulle carte vincenti è Francesco Dorigo, promettente informatico aziendale: «Ca’ Foscari mi ha fornito le competenze, tutti erano scettici sul fatto che fosse difficile trovare lavoro e possibilità, ma io l’ho trovato subito, anche grazie alle tantissime associazioni studentesche che mi hanno aiutato a interfacciarmi con il mondo del lavoro, altrimenti non so se sarei riuscito a considerare una scelta all’estero».
Tornerà in Italia? «Sono ottimista nel dire che un giorno tornerò nel mio Paese, anche se non so tra quanti anni, e spero di contribuire alla sua crescita. Questa è una cosa cui tengo davvero tanto, e so che molti studenti e lavoratori vogliono tornare per dare un proprio contributo».
Nicole Bozzao, da Mestre al Giappone
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Il coraggio e la forza di partire proprio quando una carriera sognata da anni e portata avanti con fatica si stava realizzando. Nicole Bozzao, veneziana, 35 anni e da almeno quindici una macchina fotografica regolarmente in mano, negli ultimi due anni è diventata, dopo moltissima gavetta, un nome noto nel mondo sempre più in espansione del cosplay e delle fiere del fumetto. Fotografa ufficiale del Venezia Comics, fiera che ormai veleggia oltre le ventimila presenze, è stata una delle più prenotate ed apprezzate anche a Lucca, la principale manifestazione europea del settore (e seconda per grandezza al mondo). Eppure, qualcosa, nonostante il successo, forse non andava così bene, e Nicole sei mesi fa ha preso una decisione coraggiosa e difficile: mollare il suo studio e partire per affrontare la sfida da fotografa in Giappone. «Viaggiare è sempre stato il mio scopo» spiega, «Ma mai avrei pensato proprio per il Giappone, del quale ammiro ovviamente la cultura e sono grande appassionata di manga. Il problema è che non conoscevo minimamente la lingua, quindi quando sono arrivata qui ho dovuto, anche solo per iniziare a lavorare, anche impararla. I giapponesi sono infatti gentilissimi e disponibilissimi, apprezzano chi sa lavorare bene ma non concepiscono il non conoscere la loro lingua».
Ora, dopo solo sei mesi e un lavoro che inizia ad ingranare, la voglia di restare è tanta. «Dell'Italia ovviamente mi mancano gli amici, la famiglia e le belle esperienze vissute nei festival, ma penso che difficilmente tornerei a lavorarci. La mentalità è totalmente diversa: potrei perfino dire che in Italia si respira un malessere lavorativo o addirittura di vita. Qui apprezzano quello che faccio e come lo faccio, in Italia c'era sempre una forma non dico di invidia ma come se tutti fossero esperti di ogni mestiere e incapaci di riconoscere la professionalità, arrivando anche spesso - parlo ovviamente per il mio lavoro - a fare anche i furbi con i professionisti veri. Questo non lo accettavo più». (Massimo Tonizzo)
Emanuele Orrù, da Mestre agli Stati Uniti
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È tornato negli States da pochi giorni: non poteva perdere l’evento dell’anno, il concerto di Taylor Swift. Ma, si sa, negli Stati Uniti i biglietti sono proibitivi, e a Londra spendendo meno si può fare anche una breve vacanza. Emanuele Orrù, veneziano cresciuto a Mestre, studi in Medicina e specializzazione a Padova in radiologia con superspecializzazione in neuroradiologia interventistica, vive da dieci anni negli Usa.
«La mia voglia di trasferirmi era voglia di non fermarsi», spiega Orrù, classe 1984, in videochiamata dal Lahey Hospital & Medical Center a Burlington, 25 chilometri da Boston, «quando sono nato, c’era il pieno sogno americano, avevamo tutti il mito di New York».
È la voglia di viaggiare, di scoprire realtà diverse da quella veneziana, di mettersi alla prova che spinge Orrù oltre i confini italiani. Nel suo percorso di studi, infatti, ha anche incontrato la lingua cinese, studiata a Ca’ Foscari e praticata in Cina.
«Avevo ricevuto un’offerta da un ospedale di Pechino, stavo preparando tutte le lettere necessarie per il visto», riavvolge il nastro Orrù, «ma è arrivata anche una proposta dal John Hopkins Hospital di Baltimora». La scelta cade su Baltimora: il contratto da un anno si allunga a quattro. «Ho ottenuto il certificato per lavorare negli Stati Uniti», spiega, «Baltimora mi ha insegnato molto: è una città che simboleggia gli enormi contrasti propri degli Stati Uniti». Poi, un altro volo, questa volta per un anno a Toronto, in Canada. E, infine, il ritorno negli Usa, dove è diventato a soli 39 anni co-direttore del team in neuroradiologia interventistica.
«Essere italiani aiuta», afferma, «perché siamo persone che hanno empatia, è una qualità senza prezzo. Negli Usa ci sono delle possibilità lavorative impareggiabili». Gli amici con cui è in contatto in Italia, invece, si lamentano del salario. «Certo, Venezia è un crocevia unico di persone, un centro culturale mondiale. Ma se Mestre fosse negli Stati Uniti, sarebbe una Miami italiana». (Camilla Gargioni)
Stella Piva, da Mestre a Dubai
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Stella Piva ha studiato cinese mandarino all’università Ca’ Foscari di Venezia. È una delle studentesse che sono emigrate all’estero, grazie alle competenze acquisite in Italia. Ha 37 anni e ha lavorato per dieci anni a Londra, ma da sette mesi vive a Dubai downtown, dove si è trasferita.
Lavora per Luxury Concierge Reale Estate: «Si tratta di una grossa agenzia immobiliare, per la quale in particolare mi occupo dei progetti su carta, un’area specifica di questa tipologia di lavoro. Qui a Dubai si acquistano i progetti su carta pagandoli a rate, il mercato va molto forte, pertanto conviene».
Non vende semplici case, ma progetti di torri vere e proprie.
«Ci sono famosi costruttori che lanciano molto spesso progetti su carta, che rigorosamente vanno sold out appena lanciati: vendiamo piani, appartamenti, torri, c’è solo la scelta, in parte ci occupiamo di interi comprensori».
Master community. Prima di Dubai, Stella lavorava a Londra, ai famosi magazzini Harrods, dove aveva il ruolo di retail manager per Versace uomo.
«Quando sono arrivata a Dubai ho cambiato ambito» spiega. Torneresti in Italia? «Questa tipologia di opportunità non esistono in Italia, essendo fuori da tanto quando torno mi rendo conto che poco è cambiato nel mio Paese, non mi vedrei più in Italia. Il campo immobiliare, ad esempio, qui è davvero imparagonabile a quello italiano. La mia agenzia ha appena venduto un appartamento da 80 milioni di Dirham, solo per fare un esempio».
Prosegue: «Torno in Italia per fare le ferie, mi piace, ma per quello che riguarda la carriera, il lavoro e le opportunità, no». Infine: «Dopo aver conseguito il baccellierato a Ca’ Foscari, mi sono subito trasferita all’estero, così come il mio fidanzato, che ha fatto lo Iuav». Cervelli in fuga: «Qui non abbiamo mai trovato opportunità di un certo livello, le siamo andate a cercare altrove». (Marta Artico)
Francesco La Porta, dal Lido a Parigi
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Ci aveva provato, a restare nella sua Venezia, iniziando a studiare design allo Iuav. Ma voleva provare a esplorare nuovi orizzonti.
«Non perché Venezia fosse diventata stretta», afferma Francesco La Porta, 34 anni, lidense, «ma ho scelto di andare a studiare a Londra, dove ho potuto affrontare allo stesso tempo Fotografia e Arte Contemporanea, lavorando nel frattempo tra cucine e bar».
La Porta si è specializzato sempre più nella fotografia, partendo dalle still life per i marchi, poi assistente fotografo di moda. E la moda, a un certo punto, chiama a Parigi. «Vivo a Parigi da due anni ormai», racconta, «lavoro come regista sempre nell’ambito della moda, ma ho anche voluto aprire un’osteria veneziana, “Gòto”, perché mi mancava la mia città».
La Porta è convinto che, per riuscire al meglio nella sua professione, doveva spostare lo sguardo altrove.
«Per fare un lavoro del genere, bisogna vedere nuovi orizzonti», riflette, «è impossibile raggiungere certi livelli senza uscire. È una questione di ecosistema Italia, dove permane una barriera legata all’età e non si premia il merito».
La Porta non esclude di tornare nella sua città. «Tornerei a Venezia, ma secondo me, per poterlo fare, l’unico modo è imparare a crearsi un lavoro».
In un mondo globalizzato sempre più veloce, bisogna provare a creare da sé la domanda. «Venezia richiede una velocità intellettuale altissima», sottolinea, «ma si crea guadagno con cose di valore scarso, vedasi chi vede una risorsa facile da trarre dagli affitti brevi».
In questo modo, l’ambiente cittadino invece di diventare dinamico, ristagna. «Magari tornerò», sorride La Porta, «la cosa bella di Venezia è che offre in un ambiente piccolo, dove puoi scegliere di non viaggiare ma essere direttamente immersi in un viaggio solo vivendoci».
Ma, a bloccare lo slancio, c’è la burocrazia. «La vera domanda che dovrebbe porsi la classe dirigente», conclude, «è quante persone vivranno in città tra cinquant’anni». (Camilla Gargioni)
Francesco Dorigo, da Venezia a Copenaghen
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Francesco Dorigo, ha appena 22 anni, ma un’esperienza che oggi neanche molti trentenni vantano. Dopo aver conseguito la laurea triennale a Ca’Foscari in economia, da un anno si è trasferito in Danimarca dove prosegue con informatica aziendale, precisamente a Copenaghen.
Motivo? Per conoscere la cultura nordica e perché qui gli studenti possono essere da subito inseriti nel mondo del lavoro e ricevere un sussidio statale, che in Danimarca lungi dall’essere una parola che si porta dietro una accezione negativa, è un premio che viene dato a chi lavora studia e si impegna. Così dopo poco, ha trovato lavoro per la Wsa Audiology, compagnia che sviluppa sistemi e dispositivi acustici.
«In pratica studiando qui posso lavorare part time per una azienda, fino a venti ore settimanali. Nel mio caso seguo la parte di India e Singapore dei software, sviluppo previsioni con i dati che mi vengono forniti, faccio programmazione su diversi linguaggi e analisi dati».
In Danimarca, essendo studente (Copenaghen business School) lavoratore, percepisce il sussidio statale, di circa 850 euro al mese. La compagnia per la quale lavora lo paga circa 1. 200-1300 euro netti, con un sistema di tasse facilitato. «Posso gestirmi gli orari, faccio un giorno in presenza in ufficio e il resto in smart».
Francesco ha già vissuto un anno negli States e ha lavorato a Milano subito dopo la triennale, e conta di rimanere in Danimarca per qualche anno. «Se sei cittadino europeo, qui l’università è gratuita e le opportunità di lavoro sono molte. Terminata la carriera accademica, la società può propormi un assunzione oppure no».
Ma il suo obiettivo, è fare l’ultimo semestre in Svizzera. Perché Danimarca? «Per le opportunità che offre agli studenti lavoratori e perché molte aziende reclutano in Danimarca». Ci rimarrai? «Penso sia giusto ritornare qualche cosa a chi ti offre così tanto, quindi rimarrò qualche anno, poi vorrei continuare a viaggiare». (Marta Artico)