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Aggrediti e malpagati, non sorprende che i medici di pronto soccorso lascino

E’ di questi giorni la notizia dell’aggressione subita da una giovane dottoressa, in Puglia, durante un turno di guardia medica. L’avvenimento in sé non farebbe più scalpore, ormai ci siamo assuefatti, se non fosse che la collega ha espresso la volontà di licenziarsi e, di questi tempi, un medico in meno è un servizio in meno per l’utenza. Sorpresa invece ha destato la reazione di chi, Azienda sanitaria, Regione, Stato, dovrebbe farsi carico della sicurezza degli operatori sanitari, delle istituzioni insomma. Hanno proposto un supporto psicologico per contrastare il disturbo d’ansia reattivo all’aggressione nel tentativo di convincere il medico a non dimettersi. Se la situazione non fosse tragica, ci sarebbe da ridere perché ormai abbiamo superato il senso del ridicolo.

La sicurezza di chi esercita la professione medica e sanitaria è diventata una questione nazionale, drammaticamente attuale e rappresentativa di una grave regressione sociale e culturale del nostro Paese. E le donne, tra altri tipi di violenza, subiscono anche violenza di genere.

Considerato che vi sono state donne medico uccise ed abusate sui luoghi di lavoro, soprattutto nelle postazioni di guardia medica, non ci stupisce che la che la giovane collega non voglia più saperne. E’ impensabile essere aggrediti mentre si svolge una professione d’aiuto per prepararsi alla quale ci sono voluti più di 10 anni di studio, enormi sacrifici e dispendio di risorse economiche, individuali e collettive. Formare un medico costa alla Stato circa 150mila euro e lo Stato nulla fa per arginare l’abbandono della professione o per impedire le fughe all’estero, né per rendere più attrattive e sicure le condizioni di lavoro di chi sceglie di esercitare la professione nell’ambito del Servizio sanitario nazionale.

Sulle difficoltà dei Pronto Soccorso, ad aprile 2024, la Commissione Affari Sociali della Camera dei Deputati ha avviato un’indagine conoscitiva. Nel documento conclusivo si afferma che la difficile situazione in cui si trova la medicina di emergenza-urgenza oggi in Italia rappresenta la “punta dell’iceberg” di un sistema pubblico al collasso, cosa che noi operatori stiamo denunciando da decenni. Tra le cause principali: la carenza di personale medico e infermieristico – si stima che nel settore dell’emergenza-urgenza manchino oltre 4.500 medici e circa 10.000 infermieri – tempi di attesa lunghi per il ricovero (boarding), stante la carenza di posti letto disponibili nei reparti di degenza, difficoltà a garantire un turnover adeguato, elevato numero di accessi impropri anche per le lunghissime liste d’attesa per prestazioni e visite specialistiche.

La fuga dei medici dai Pronto soccorso è dovuta all’elevato contenzioso medico legale, carenza di organico e, quindi, inadeguata copertura dei turni con conseguente difficoltà di gestione aggravata dall’utilizzo delle cooperative all’interno degli ospedali stessi con frammentazione estrema della gestione del personale, quindi il rimedio è peggiore del male. A tutto questo si aggiunge il progressivo invecchiamento della popolazione e la disaffezione alla professione dei giovani sempre meno propensi a scegliere una specialità, quella dell’emergenza-urgenza, faticosa, difficile, con impatto negativo sulla qualità di vita personale e mal remunerata. Nell’ultimo contratto siglato per la dirigenza medica è stata riconosciuta ai medici di pronto soccorso un’indennità aggiuntiva di un euro lordo l’ora.

Quindi la violenza sui medici e sugli operatori sanitari rappresenta una delle principali cause, insieme alle retribuzioni più basse d Europa, di abbandono della professione nell’ambito del SSN. Violenza che è diventata prassi nel rapporto con gli utenti e e che è più evidente nei luoghi di “frontiera”, spesso isolati, come i presidi di guardia medica e nei Pronto Soccorso, veri e propri gironi infernali danteschi e per chi vi arriva e per chi vi lavora.

Qui si avverte di più la fragilità del nostro Servizio Sanitario Nazionale; fragilità determinata da sovraffollamento, della mancanza di posti letto nei reparti, dalla mancanza di personale. Effetti questi di più di dieci anni di tagli lineari effettuati da governi di destra, di sinistra o tecnici che dir si voglia. Ma la mancata risposta ad esigenze di salute, reali o presunte che siano, non può essere una giustificazione alla violenza.

Non c’è più giustificazione che tenga per chi è capace di riempire stadi e piazze per una partita di calcio o una manifestazione musicale, ma rimane totalmente indifferente allo smantellamento di un bene pubblico, il SSN. In Francia, Germania, Spagna, Inghilterra milioni di cittadini hanno manifestato il proprio dissenso contro i tagli operati dai governi sulla salute della collettività. In Italia non siamo neanche capaci di avviare un dibattito pubblico sulle risorse che vengono dirottate all’acquisto di armi piuttosto che sugli ospedali.

Pretendere e basta, malmenando i medici che non hanno nessuna colpa, senza impegnarsi in prima persona, a difendere, quanto conquistato in tutele e civiltà, non funziona più. La democrazia, e la salute collettiva ne è uno dei capisaldi, non è scontata e va difesa. Non sempre e non solo è colpa della Politica che non dà risposte, ma è anche colpa dei cittadini che quella politica dovrebbero stimolare, che dovrebbero su quella politica vigilare per poi chiedere conto.

Forse aveva ragione Churchill a dire che siamo un popolo strano: perdiamo “le partite di calcio come se fossero guerre e perdiamo le guerre come se fossero partite di calcio”.

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