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Ius scholae, Sbrissa: «Senza senso spiegare la Costituzione e poi non riconoscerli»

Quanti studenti stranieri ci sono negli istituti che fanno parte dell’Enaip, l’Ente Nazionale Acli Istruzione Professionale? La domanda, per il suo amministratore delegato padovano, Giorgio Sbrissa, non si pone.

«Non facciamo queste distinzioni. Per me chi è nato in Italia è italiano, a scuola non si chiedono queste cose, non si fanno queste differenze» risponde.

Il distinguo, insomma, è tutto politico: mentre le leggi sono rimaste congelate per anni, la scuola è andata avanti e, nel suo essere multiculturale ha rispecchiato pienamente la società, prima che arrivasse un adeguamento normativo.

Questo, però, spesso e volentieri ha portato al paradosso per cui a studenti nati e cresciuti in Italia, che tuttavia lo Stato non riconosce come italiani, si deve insegnare l’educazione civica, l’importanza del diritto-dovere di voto, quando poi non si dà loro la possibilità di farlo.

«Come possiamo spiegare a questi ragazzi la Costituzione se non vengono riconosciuti come cittadini di questo Paese?», riflette Sbrissa, «nelle classi quarte dei 18 centri che abbiamo in Veneto facciamo un percorso di educazione civica che comprende il progetto “Il sindaco in classe”, per permettere agli studenti di conoscere gli amministratori del loro comune, ma se poi non li riconosciamo come cittadini italiani, che senso ha?» prosegue.

Al centro del discorso, per l’Ad dell’ente che conta 4mila ragazzi a cui si aggiungono altri 7mila studenti adulti, c’è il concetto di responsabilità.

La cittadinanza non dà solo diritti ma anche doveri, «responsabilizza gli studenti ad essere dei bravi cittadini» precisa, prima di aggiungere: «Credo che un ragazzo cittadino italiano si senta tutelato e, di rimando, mette in atto comportamenti più accorti rispetto rispetto al Paese che ha scelto. Perché oggi di questo si tratta, di una scelta. Se non diamo loro la cittadinanza, di fatto, si sentono meno parte della comunità e, di conseguenza, alcuni possono rispettarla meno».

Non solo, Sbrissa sottolinea come non sentendosi inseriti, diventa più facile per questi giovani decidere di partire per l’estero, una volta diplomati.

D’altronde, cosa li può trattenere in un Paese che non sembra nemmeno vederli? «E questo è un problema, perché l’Italia e, nella fattispecie il Veneto, hanno bisogno di essere più attrattivi. Le aziende hanno bisogno di lavoratori».

Lo stigma degli istituti professionali è stato superato, almeno dai giovani, tanto che queste scuole sono scelte dal 10% degli studenti veneti, ben 20 mila. Più dell’80% dei diplomati delle scuole professionali, dopo un anno dalla Maturità, è già occupato.

Percentuale che sale all’83% nel settore della ristorazione e all’85% in quello meccanico.

«Il 20% che manca prosegue gli studi o va a lavorare nelle ditte familiari» precisa Sbrissa, facendo presente come tutta l’economia della nazione ci perde se questi giovani altamente preparati prendono la valigia e vanno via.

Eppure, serve qualcosa che faccia venire loro voglia di rimanere. Possibilità, prospettive, riconoscimenti e diritti, ma prima di tutto la politica deve iniziare a vederli.

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